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Something from Nothing: The Art of Rap

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In occasione della rassegna Documusic, organizzata dal Teatro Franco Parenti di Milano in collaborazione con Wanted e la collana “Real Cinema” di Feltrinelli, il nostro Francesco Lattanzio aka Fanzio è stato inviato in missione (non per conto di Dio, anche se la tentazione di dirlo è molta) nel giorno dedicato alla proiezione di “Something from Nothing: The Art of Rap, documentario datato 2012 realizzato da Ice-T e Andy Baybutt. A missione (visione) compiuta Fanzio è tornato a casa, ha messo su “Power” (quello con la modella seminuda in copertina che impugna un fucile a pompa, per intenderci) e ha scritto qualche riflessione su quanto visto.

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Una rivincita contro chi l’ha sempre disprezzato o una consacrazione definitiva tra le arti? Non sapevo neanche io come viverla, sta di fatto che ieri il Teatro Parenti di Milano ha sgomberato il suo palco dagli oggetti di scena per accogliere un documentario sui mostri sacri del rap. Non è la prima volta, ci sono state occasioni anche qui in Italia per vedere il rap sullo stesso palco, di un’orchestra ad esempio, ma la musica si riarrangia e lo stesso rap ne è un esempio chiaro. È più raro invece vedere Ice T (proprio quello di 6 in The Morning) chiacchierare con i vari Dr Dre, Snoop Dogg, Q-Tip, Premier, Big Daddy Kane, Afrika Bambaataa, Grandmaster Caz, B Real, KRS One, Melle Mel, Raekwon, Redman, Mos Def, Run Dmc, Eminem (non ne scrivo più se no finisce lo spazio ma la lista è ancora lunga), tra i seggiolini rossi di uno dei templi dell’arte.

“Something From Nothing – The Art of Rap” affonda nelle radici dell’hiphop attraverso i “suoi genitori”, quelli che hanno messo le prime pietre di questo “gioco”, che tanto gioco non è. Storie di rap, di rapper e di hip hop, ma anche tanto materiale per chi oggi prova a scrivere qualche pezzo, prendere il microfono in mano o creare un beat. Insomma risponde a quelle due domande che tutti prima o poi ci siamo posti: Ma come cazzo fanno? Ma come cazzo gli è venuto in mente?.
Ma andiamo per ordine. Il giro degli Stati Uniti comincia a New York, dove tutto è nato. “Non c’erano soldi per gli strumenti, i tagli ai fondi scolastici si erano concentrati sulla musica. E noi che abbiamo fatto? Abbiamo preso i cd che i nostri genitori tenevano in salotto, li abbiamo messi sulla puntina e abbiamo trasformato questa in uno strumento. Abbiamo creato qualcosa dal nulla” racconta Lord Jamar, visibilmente fuso dopo aver spiegato il suo primo contatto con il rap (emettere suoni indecisi su una base nel salotto di casa sua fino a fermarsi per dire…ma come si fa???). E quindi “jazz, funk, blues e soul hanno trovato una seconda vita. Rappavamo sui beat dei Parliament, dei Funkadelic, ecc ecc. L’hip hop non ha inventato niente, ma ha reinventato tutto” dice Grandmaster Caz dopo aver tirato fuori dal suo impianto un pezzo che ha fatto crepare i muri del teatro. Tocca a Afrika Bambaataa poi puntualizzare la differenza tra rap e hiphop, tra il cantare e il far parte di un movimento culturale. Gettate le basi, capito di cosa stiamo parlando, gli argomenti saranno poi i più vari. Dai metodi per scrivere i testi (spiegati da gente come Rakim) a come mascherare errori durante i live, dal beatbox all’approccio di un produttore (Dre e Premier su tutti) quando lavora con un rapper. Tutto questo in viaggio tra le città simbolo, da NY a LA, tra strofe a cappella e frasi d’autore, studi di registrazione e strade, e poi alcuni retroscena raccontati direttamente dai maestri (qualcuno con il joint in mano, qualcun altro l’aveva evidentemente appena spento).

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La mia generazione (nati tra gli ’80 e i ’90) vive un paradosso nell’hiphop. La nostra nascita corrisponde alla sua definizione. Questo mi ha sempre fatto pensare a come considerare questo genere. Quando mio padre aveva la mia età, questa roba non esisteva, ma ieri ero in un teatro a vederne raccontata la storia. Può essere considerata classica? Vedere un Doug E. Fresh (inventore del beatboxing a quanto dice il documentario) quasi 50enne rappare al ristorante testi di autori diversi con gli occhi che brillano di entusiasmo, e come lui altri protagonisti di questa impresa di Ice T, non lascia nessun dubbio. La cultura ha affondato le radici.

“Puoi rappare senza essere hip hop. Il rap è un modo di cantare. L’hip hop è una cultura. Un sacco di gente che rappa non sa niente di hip hop, rappa e basta e così ci sono due diversi tipi di persone: gente che si limita a giocare, che dice “è solo rap” e altri che dicono “No, l’hip hop è una cosa seria”
Ice T

“Ci giochi ma col rap non ci si gioca”
Danno

 

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