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NewsRecensione

I Black Uhuru e il loro album Red sono i protagonisti di Reggae Vibes

Black Uhuru Red Reggae vibes

Premessa

Il 1981, per la Reggae Music, è un anno cruciale. Siamo nel periodo considerato dagli studiosi come lo “spartiacque” tra due ere musicali, quella della ricerca strumentale e quella del glam, puramente “estetico”. Il 21 maggio vengono celebrati i funerali di Bob Marley. Fiumi di persone si riversarono lungo le strade di Kingston per dare l’ultimo saluto al re indiscusso di questa musica, l’uomo che aveva portato nel mondo la cultura Rasta e la sofferenza di un intero popolo. Quel giorno si celebrava soprattutto il funerale del Roots Reggae. Nell’isola caraibica, le dancehall non erano più quelle degli anni settanta, il suono stava cambiando. Comincia ad affermarsi il digitale e, insieme ad esso, la musica jamaicana diventa sempre più minimale ed elettronica. Non possiamo ancora parlare di Raggamuffin (lo scopriranno qualche anno più tardi), ma è evidente la differenza con gli stili precedenti. Una nuova generazione di producer e musicisti si affacciava sul mercato discografico con un grande bagaglio di innovazioni musicali. Erano i dubmaster e i session man cresciuti negli studi che hanno reso importante e artisticamente complesso il ciclo musicale dei seventies. Gente come Sly & Robbie, soprannominati “riddim twins – gemelli del ritmo”. Il loro suono si rifaceva al Roots, nello specifico al Rockers Style strumentale, da loro ormai assorbito perfettamente durante gli anni della gavetta nelle backing band dei singers noti. Ma il loro tocco era decisamente “glam”, al passo con i tempi.

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Black Uhuru – Red (1981). La recensione

Tra le decine di dischi fondamentali prodotti in quegli anni dal duo, spicca sicuramente “Red” dei Black Uhuru, del cruciale anno 1981, l’album decisamente più maturo del trio vocale composto da Michael Rose (lead singer), Puma Jones e Duckie Simpson. Un progetto pieno di colore, sia dal punto di vista tematico sia da quello musicale: otto tracce che ripercorrono la storia, ma anche l’attualità. In tutti i sensi. Il disco si apre con “Youth of Eglington“, un brano sulla realtà inglese di quel periodo che incalza a suon di batterie elettroniche dal carattere coinvolgente, supportate da un basso ritmato e arricchite da riff di chitarra e synth, tutti elementi che ritroveremo durante l’ascolto dell’intero album. Successivamente si torna alle sonorità più affini all’ortodossia Reggae. “Sponji Reggae” è un inno della musica in levare, moderno e tradizionale allo stesso tempo, con suoni tipicamente eighties che però sembrano tutto tranne che anacronistici. Un brano allegro destinato a durare nel tempo. Gli ultimi due pezzi del lato A, “Sistren” e “Journey“, hanno un struttura più introspettiva, ma rappresentano il miglior trampolino per tuffarsi nell’ascolto della facciata B. I vinili sono belli anche per questo. “Utterance” è la traccia più soulful del disco, con un lead vocal sensazionale, inserito perfettamente tra cori gospel e chitarre particolarmente groovy, che insieme creano un’atmosfera profondamente religiosa. Proseguiamo con “Puff She Puff” e “Carbine“, sequel “naturali” della hit che li precede, che costituiscono quasi degli approfondimenti sui problemi quotidiani della comunità Rasta. La chiusura del disco è affidata a “Carbine“, il suo culmine stilistico. Ha un’approccio differente rispetto agli altri brani, più slowly ma ugualmente potente. La semplice batteria fa da trama ad un tessuto sonoro pieno e colorito, impreziosito da effetti e trucchetti da ingegnere del suono. Chitarre, percussioni e voce si uniscono per un flusso unico di spiritualità quasi rituale. Un album pieno di influenze moderne, un suono globale e che si affaccia in un mondo nuovo. Sono gli inizi degli anni ottanta e la Jamaica è al passo con i tempi.

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Approfondimento a cura di Emiliano Rubebwoy Nonna

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