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Intervista

Il rap di Lucci ha una data di scadenza?

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È un bel pomeriggio di sole nella Capitale. La Garbatella è lo scenario giusto per fare quattro chiacchiere con chi Roma la vive nel quotidiano. Di giorno, come di notte. Quel “chi” è Raffaele Lucci, per gli amici sul beat, semplicemente “Lucci”, dal 16 aprile fuori con l’album Shibumi (Overdrive Records) prodotto da Ford78. Lo incontro a metà maggio a ridosso di un’importante serata live che gli suggerisce di rimanere molto concentrato su ciò che l’aspetta. Nonostante questo, i gradini di un ingresso qualunque riescono a rilassarlo quel tot che serve per una mezz’ora di spunti e riflessioni, tra passato, presente e futuro.

Prima di immergervi nella lettura, il consiglio è quello di godervi in sottofondo l’album.

Parlami del periodo in cui eri “solo” Raffaele…

Ho avuto la fortuna di avere una sorellastra, più grande di me, infatti è del ‘78. Lei è una cara amica di Masito (Colle der Fomento – n.d.r.) e da ragazzetta stava nel giro del Rome Zoo.
E quindi a casa, passando del tempo con lei, sentivo parecchio rap americano, pochissimo rap italiano. Ai tempi non mi piaceva così tanto, stavo più fissato con quello americano e quello francese. E poi i graffiti. Giravano per casa parecchi writer abbastanza importanti. Quindi i suoni ed i colori, più che le parole. Ricordo che col walkman, infilavo la cassetta del momento rubata a mia sorella e me ne andavo a vedere le murate dei writer, con quel suono in cuffia.

Poi i Brokenspeakers, il muoversi come crew…

Questo fu l’approccio alla cosa. Poi un po’ per caso abbiamo iniziato a farlo, nell’estate 2001. Ed ai tempi ero totalmente all’oscuro di parecchia della roba che aveva segnato il rap italiano nella prima fase, quella dei Neffa, Sangue Misto… Anche del Colle, ho sentito prima “Scienza Doppia H” rispetto ad “Odio Pieno”. Questo proprio perché inizialmente, non per spocchia, ma il rap italiano non lo ascoltavo. Ho iniziato a sentirlo, quando ho cominciato a farlo. Per capire cosa stesse facendo la “concorrenza”, proprio per guardarmi intorno, sapere gli altri cosa stessero facendo. Poi pian piano ho trovato alcune cose che mi piacevano ed è diventato metà e metà: tanto rap italiano, quanto rap americano. E cominciando a capire anche i testi del rap americano, mi sono reso conto che tutti i miei ascolti vertevano verso roba mega coatta. I Mobb Deep, per esempio, che non sono assolutamente “conscious” come i Wu-Tang del resto. E paradossalmente in Italia mi piaceva tutta la roba dell’Area Cronica, tipo i Lyricalz, con tutta la loro “coattanza”. Per cui il suono era fico, anche se strizzava l’occhio più alla West Coast. Quindi da una parte l’hardcore del Colle e poi, quasi a far da contraltare, i Lyricalz con i loro “…bevo spumante, un giorno vivremo alla grande…”. Anche i nostri primi testi erano parecchio giocosi…

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Ed infine l’ultima fase in cui sei “solo” Lucci…

Poi ho incontrato Coez, inizialmente per i graffiti, ed il suo gruppo, “Circolo Vizioso”, mentre io avevo il mio di gruppo, tra l’altro c’era già Ford con me. E ci venne l’idea di organizzare serate, creando un collettivo per suonare. Una specie di contenitore di gruppi che avrebbero suonato nelle stesse serate. Alla fine tutto questo si è fuso in un solo gruppo, con Ford che ha messo da parte il microfono e si è piazzato alle “macchine”. Siamo nel 2007 e sta roba comincia ad andare bene, molto bene. E ci prendiamo il merito di averla spinta, di averla fatta esplodere. La mia generazione, a parte Salmo che è entrato dopo da outsider, e a parte Ensi che ha la mia età, non è riuscita effettivamente a raccogliere quanto ha seminato in quel momento. Prendemmo la faccenda, la traghettammo da serate pressoché vuote fino ai grandi numeri di oggi. Ma chi ne ha tratto beneficio è la minoranza, soprattutto chi è arrivato dopo, pochi di quelli che c’erano prima. Abbiamo pagato quasi un dazio. Ma va bene così. C’è da dire che ad un certo punto Roma ce la siamo presa. Un periodo in cui ci siamo caricati tutti e tutto sulle spalle. Poi ci siamo accorti che sta roba nata per scherzo al liceo stava diventando una cosa seria, un impegno da rispettare, un lavoro, soprattutto a livello di serate. Quindi per alcuni rappresentò quasi un qualcosa che spiazzava il loro programma di vita e l’interrogativo fu: chi ci vuole mettere la dedizione e l’impegno di un lavoro? A quel punto Nicco e Franz decisero di dedicarsi rispettivamente ai video e alla programmazione, mentre Silvano (Coez – n.d.r.) aveva le sue convinzioni da musicista e volle provare a campare di musica. Io, invece, rimasi un po’ sul chi va là, perché mi interessava solo la dinamica del gruppo. Non avevo nessuna velleità da solista. Ho fatto parecchia fatica a trovare una dimensione senza il concetto di gruppo a fianco.
Poi piano piano l’ho trovata, al punto che lo scorso anno, mi son detto: si avvicina la mia data di scadenza come rapper.

Anche Jay-Z, mi sembra intorno al 2003, disse una cosa del genere… disse “non ho più niente da dire”… poi però…

Beh, Jay-Z avrebbe svariati milioni di motivi per continuare… a parte gli scherzi, il problema della data di scadenza è proprio quello. E questo è un problema che avverte anche un Noyz. La roba che scrivi quando hai 20-25 anni, per quanto magari possa essere un po’ sporca a livello tecnico, è comunque una roba di una spontaneità e genuinità che arriva. Soprattutto per chi ha avuto come noi dei percorsi personali abbastanza amari. Poi capita che nel tuo percorso di vita alla fine hai successo, chi in un modo, chi in un altro. Per successo intendo, nel mio caso, che ho aperto un locale, do lavoro ad alcuni amici, ho una bella casa con la mia compagna. Io problemi non ne ho più. E’ quello che dice appunto Jay-Z. “Faccio una vita da re, di cosa dovrei parlare?

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Temi che possano mancarti gli spunti giusti? Shibumi, però, è un ottimo pezzo, davvero ispirato…

Leggo tanto, vedo parecchi film… Ma quanti pezzi puoi fare con quella chiave? C’è il rischio di essere ridondanti o di cadere nella mediocrità. C’è un dissing di Eminem, credo a Benzino in cui dice “Nessuno vuole vedere un nonno che rappa!”. Ho aperto il live dei Public Enemy, e pur essendo dei mostri sacri, percepisci che è un genere che non puoi fare per sempre.

Ti parla un trentaquattrenne, per carità, ma già adesso mi rendo conto che avere una sorta di doppia vita che ti porta a stare sul palco a fare il giovane, è un po’ spiazzante. E più si va avanti, più faccio fatica a riproporre determinate cose. Un “Non te riesce”, per esempio, nonostante sia uno dei pezzi live più apprezzati durante i concerti, non mi si cuce più tanto addosso. Lo faccio solo come esercizio di stile, perché suona bene, la gente reagisce positivamente, è divertente, fa parte dello show. Poi credo che la sonorità che porto avanti io, stia finendo.

Ne sei così sicuro? Secondo me c’è una ciclicità nelle cose: guarda per esempio il vinile, sembrava finito ed invece… Credo che molta roba sia ciclica e sia destinata a tornare… Come quel tipo di suono!

Guarda, sono stato fermo per due anni e mezzo ed ho la sensazione di aver perso qualcuno per strada, soprattutto su Roma. Se prima un posto come La Strada (ndr il centro sociale in zona Garbatella, a Roma, in cui si è esibito in serata) lo riempivo ad occhi chiusi, ad oggi, temo di non riuscirci. I motivi? Non perché la gente non mi voglia più bene, perché l’affetto è rimasto. Forse non avrei dovuto fermarmi, perché in quel lasso di tempo c’è stato un ricambio generazionale. Quelli che ci seguivano come Brokenspeakers sono cresciuti, non sono più quindicenni invasati. Quindi hanno cambiato pure modo di fare serata. Invece del sudore del live rap, preferiscono andare a rimorchiare in qualche locale più tranquillo. Magari il cd se lo sentono, ma la serata no. Rimanendo fermo ho perso sia quella fetta di pubblico che quelli nuovi che si sono approcciati al rap per la prima volta, perché non c’ero in quel momento.

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C’è un pizzico di disfattismo, perché penso che oggettivamente tu abbia anche un pubblico più “grande” che ti segue…

Può essere vero, ma è una fascia di persone poco attive sui social e non so come arrivare a loro… A livello di comunicazione, in maniera immediata… Magari ti scoprono mesi dopo su Spotify e poi si comprano il disco… Ma non ci arrivi il giorno dell’uscita… Al varco ti aspettano i ragazzini, che stanno sempre sul pezzo! I grandi non fanno rumore, vengono sporadicamente ai live e non ti mettono il like sui social. Sono persone che ascoltano musica e va bene. Il fatto è che il mio è un genere “giovane” ed il confronto avviene con competitor giovani ed un bacino d’utenza giovane.

A proposito di questo, nell’intro del disco ad un certo punto dici “quando fare rap, voleva dire ancora fare rima”… E’ una critica al rap di adesso, oppure al fatto che ti piace il rap fatto in una certa maniera?

C’è parecchia roba nuova che mi piace davvero tanto: Vegas Jones, Irbis, che è un pischello che ci ascoltiamo spesso con Coez e che presto verrà fuori, qualche canzone della Dark Polo in alcuni momenti della giornata, alcuni pezzi di Sfera. Ma li reputo qualcosa di totalmente diverso da quello che faccio io. Nel momento in cui Sfera ha rivendicato il suo non essere rapper, stiamo a posto. Il mio discorso non è una critica ai ragazzi nuovi, ma a chi, molti giornalisti del settore, che per difendere i nuovi, attacca noi. Il mio genere è di nicchia ed io ho scelto di farlo, seguirlo e di caricarmelo sulle spalle. E come ogni genere di nicchia ha degli stilemi molto precisi. E a me piace seguirli, fare la rima sul beat. La critica che mi suggerisce che dovrei rinnovarmi non la capisco, perché per altri generi non è così. Ci sono gruppi rock che fanno da venticinque anni la stessa identica musica e nessuno si sogna di dirglielo, perché chi li segue vuole esattamente quello. E riguardo a questo discorso, ti cito una strofa di Eminem, nel pezzo “Caterpillar”, in cui dice “The boom bap is coming back with an axe to mumble rap”… Chissà, se l’ascia del boom bap farà il suo corso… il mio non è pessimismo… La mia è la filosofia dell’aspettati il meglio, ma preparati al peggio… Sempre…

 

a cura di Lucio Bernesi

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