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Intervista

Militant A: la mia vita con il rap in un libro

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Bentornati tra le righe de lacasadelrap.com, dopo aver analizzato l’appassionante libro di Militant A (Assalti Frontali): Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo. La mia vita con il rap – leggi la nostra recensione – abbiamo voluto intervistarlo per voi!

Gli spunti di riflessione non mancano, leggete, non ve ne pentire!

Qualche settimana fa una ragazzina – riprendendo alcuni versi della canzone “Odia gli indifferenti” (DJ Fastcut, Kento & Principe, 2016) – è stata oggetto di scherno e vere proprie minacce dai sostenitori del Ministro dell’Interno. Pensi che la cultura hip hop possa modificare la mentalità intollerante e violenta dilagante nel Nostro Paese?

Certamente sì, l’hip hop può fare tanto come cultura, soprattutto in questo periodo che il rap è molto diffuso, dovrebbe esporsi di più, per orientare i sentimenti e aiutare a rafforzare una comunità solidale. In Italia il problema non è neanche più tanto “l’indifferenza” ma “la crudeltà” che sta diventando una virtù. Questo crea un grandissimo problema di convivenza, di aria che si respira.

Il rap dichiaratamente militante è spesso visto in modo ambivalente. Secondo te quali possono essere le ragioni?

Il rap “militante” che vuol dire? Che dal pensiero si passa all’azione e dall’azione al pensiero, questo mi piace… ma io ho già il nome che mi definisce, Militant A, dire che faccio anche musica militante diventa pesante e quindi preferisco dire che faccio “poesia della strada”. Me lo sento più attinente. Poi, che vuol dire “ambivalente”? Che ha nobili cause ma annoia? Tutto può essere ambivalente, anche il rap d’amore, o che esalta il denaro e la coca, diciamo allora che esiste il rap che colpisce il cuore perché racconta storie vissute realmente e ci si può identificare, e quello patetico, che scimmiotta altri rapper (americani per lo più) di successo per cercare di fare altrettanto.

Può essere il rap, vista la sua carica sociale, un modo per avviare processi di “coscientizzazione” su certi problemi postmoderni? In che modo?

Il rap è uno strumento per aiutare la libera espressione, per fare gruppo, per superare i traumi, per avvicinare i ragazzi alla storia, alla memoria, ai diritti, scrivendo, cantando, ballando, è una valvola di sfogo e una carica di energia che può far vedere le cose in altro modo. Con il rap la scuola può essere diversa, da luogo di odio e prigione può diventare divertimento e anche un quartiere può essere visto con altri occhi, quello che è chiamato “degrado” può diventare “risorsa”. La nostra canzone “Il lago che combatte” ha cambiato la percezione che aveva Roma su un luogo che era stato vittima di un abuso edilizio e dove la natura si era ribellata creando un’oasi urbana nascosta. La canzone e il video insieme alle lotte e alle manifestazioni hanno creato una coscienza collettiva talmente forte che nessun politico ha potuto mettersi contro, anche i sindaco ci rispose, furono compiuti degli atti pubblici concreti e ora il lago è aperto, è di tutti, è una grande vittoria.

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Laboratori musicali rap nella scuola così come nell’extrascuola possono essere sia un’occasione di divertimento sia un’occasione educativa. E’ quindi una situazione protetta per (ex-ducere) tirar fuori aspetti di esperienza di vita e del nostro contesto socio-culturale che in altre situazioni non verrebbero affrontate?

Tirare fuori il proprio vissuto si può fare ovunque ci si trovi, l’importante è creare sempre l’atmosfera adatta, il clima giusto per far nascere quella che si chiama “l’hip hop situation, la dimensione di comunità, di fratellanza. Il primo ingrediente che ci vuole è la fiducia, questa empatia con il gruppo che ti sta intorno va cercata con umiltà e tenacia, credendo in quello che si fa, per aprire i cuori e parlare una lingua di verità. Esi può trovare sia in un luogo protetto che in mezzo alla strada. Il mio libro si intitola “Conquista il tuo quartiere e conquisterai il mondo”, questa frase la usavano i pionieri del rap e va inteso come “seduci il tuo quartiere e sedurrai il mondo”, oppure “conosci il tuo quartiere e conoscerai il mondo”. Nel Bronx (che è la casa dell’hip hop)prima che arrivassero i pionieri le persone più stimate e seguite erano i capi gang, i grandi spacciatori e i più violenti, l’hip hop ha cambiato prospettiva dimostrando che era molto più interessante e seducente chi si esprimeva con l’arte.

La denuncia sociale da cui nasce il rap, secondo te, può cambiare alcuni aspetti della nostra società?

Gli abitanti di un quartiere diventano più fieri quando hanno una percezione migliore di se stessi. E questo il rap può farlo. Io dico sempre nei miei laboratori che ci sono tre passaggi nella scrittura, l’affermazione di sé, l’affermazione di sé nell’ambiente in cui si vive e il messaggio da lanciare al mondo. Anche in una o due quartinesi può fare, aprendo degli squarci di luce sulla vita delle strade.”Io sto sull’Anagnina e spingo la mia rima/ sono la Melissa chiamatemi Regina / sto in fissa da quand’ero ragazzina/ la punto ritoccata è la mia adrenalina/ 5 anni di moda/ vi lascio tutti in coda/ le vostre Lamborghini sembrano vecchie skoda/ non c’ho manco la patente ma sto sempre in gara/ la vita io la amo anche se è una vita amara”. Queste rime sono scritte da ragazzi e ragazze della periferia romana con cui ho lavorato e grondano fascino, riscatto, disincanto. Oppure: “Io sono Sega e niente a memi piega / ho sconfitto il mare figuratevi la lega/ sono andato via dal Mali poi in Burkina Faso/ sono arrivato qui senza neanche farci caso/ di notte col freddo in un gommone stretto/ se ci ripenso mi si stringe il petto…”. Il rap fatto in questo modo svela la lotta che fanno le persone per vivere, e questo crea dignità.

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Cosa pensi manchi alla cultura hip hop in Italia? Quali possono essere le ragioni?

Non lo so, e chi può dirlo? Un tempo eravamo molti di meno, l’hip hop sembrava una cosa da adepti ma stavamo comunque sempre a litigare su chi seguiva la strada giusta, a me, ad esempio, tanti non mi consideravano della scena, eppure tutti avevano iniziato dove stavamo noi, nei centri sociali, e se non ci fossero stati questi luoghi liberi dove cominciare a provare e anche a sbagliare sarebbe stato tutto più misero. L’errore manda avanti la creatività e l’innovazione e questo si trova solo nei luoghi liberati, come erano le prime feste hip hop dove nacque tutto, non certo nel mercato dove non puoi sbagliare. Comunque il mondo è pieno di dolore e avrebbe bisogno di canzoni che lo tirino su, per reagire, ritrovarsi, sfogare la rabbia, le parole sembrano schiacciate eppure il rap conosce un momento di grande diffusione e questo è un bene, che vi devo dire… non esistono regole, la mercificazione fa male, rende tutto banale, ma questo anche perché mancano dei grandi movimenti sociali e politiche possano fare da riferimento e da sponda. Delle nuove leve mi piace qualcosa di Quentin40, per dire un giovane di Roma, e neanche lo conosco e mai visto, ma non mi sbilancio più su nessuno ormai… un giorno vedi e senti cose belle, il giorno dopo dici “ma perché è caduto in quel modo?”… io mi associo solo con quelli che conosco per la strada, una volta ho visto su un palco a Piazza del popolo per una manifestazione in difesa della costituzione Claver Gold e mi è sembrato molto in gamba. Però ognuno segue il suo percorso e io auguro a tutti i ragazzi di essere felici e avere grandi soddisfazioni. E ringrazio anche questa grande diffusione del genere, quando vado nelle scuole entro subito in contatto con gli studenti grazie alla diffusione del rap, tutti in cerchio, alle assemblee, mi sentono uno di loro, complice, e racconto storie in rap e sul rap e so che ci sono dei vuoti grandissimi, nessuno conosce l’incredibile storia sociale dell’hip hop ma in generale non si conosce la storia di niente, e se non si conoscono le basi si è anche più indifesi, quindi il problema è molto più grande del rap.

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Quali progetti hai per il futuro a livello musicale, artistico ed editoriale?

In questi mesi giro l’Italia per far conoscere il mio libro. Poi usciremo presto con nuove canzoni che stiamo preparando.

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