Se conosci l’hip hop conosci i Sa Razza (se non li conosci recupera, ma subito dopo aver letto qui sotto); se sei sardo e ascolti rap, idolatri i Sa Razza. Ho così, un po’ per caso, un po’ perché cercavo questa intervista da tempo, incontrato Quilo e discusso con lui di tante dinamiche nazionali, sarde e globali riguardo la musica rap.
Un esempio per ogni rapper che lega alla street credibility la cultura e la voglia di fare.
Iniziamo l’intervista con una tua presentazione. Per chi non conoscesse Quilo, chi è quest’ultimo e come lo presenteresti con un brano della tua discografia?
Sono Alisandru, in passato mi conoscevano come Kg, in seguito lo street name è cambiato in Quilo. Il mio percorso artistico inizia nei primi anni ’90 dalla città di Iglesias dove nacque il progetto Sa Razza Posse con Su Rais, prima crew ad aver inciso un vinile 12” di rap in lingua sarda. Se dovessi scegliere uno o due brani per presentarmi, direi che quel singolo rappresenta per me la genesi In Sai Ia e Castia in fundu, prodotto dalla epica Century Vox di Bologna. In quel disco ci sono le mie radici, in quel disco suonò la drum Neffa, fece gli scratch Dj Gruff e molte parti di chitarra e basso furono eseguite dai Casinò Royale. La mia bio prosegue fino ad oggi attraverso album come Wessisla e tanti altri lavori fino al progetto Maloscantores nato nel 2004/ 2005 da me e da Micho P.
Sa Razza, poi, in tanti anni è passata sotto varie formazioni. Una storia lunga che spesso è difficile da riassumere in poche righe.
Hai pubblicato da poco due singoli, tra cui Nie. Vorrei chiederti: come vivi l’approccio al mic dopo una carriera ventennale? È cambiato qualcosa dalla prima registrazione ad oggi? Vivi l’esperienza di registrazione come fosse sempre la prima volta o la vivi da veterano?
Pubblicare nuovi brani mi fa sentire vivo. La musica è coma una terapia per il corpo e per la mente. Non mi pongo il problema di svoltare, piuttosto oggi come ieri sto attento al messaggio che devo trasmettere. Certamente è cambiato il modo di produrre musica, oggi è tutto molto più veloce. Beatpolarism e Nie (neve) che trovate sul tubo, sono due singoli molti diversi tra loro, in qualche modo cerco sempre di sperimentare e di restare produttivo anche per conservare questo nome, Sa Razza, che per me è estremamente importante.
Tu, con i Sa Razza, sei diventato uno degli artisti più conosciuti nell’ambiente rap durante i gloriosi anni ‘90. Quale fu all’epoca la ricetta per il successo?
Non credo che esistano ricette per il successo. A volte mi sono trovato insieme ai miei compagni di cammino davanti a scelte precise, condizioni favorevoli e casini. Sono sempre stato determinato fin da ragazzo nel darmi da fare. Erano tempi diversi, contesti diversi, spazi diversi, un film diverso. Tutto cambia e tu cambi con il tempo anche se conservi la tua coerenza che spesso non ti porta al successo vero. Cosa è il successo? Certamente in quei tempi il nome Sa Razza è esploso e oggi questo nome rappresenta per migliaia di ragazzi giovani e meno giovani. Questo è per me il successo. Ancora oggi molti Mc di gran successo riconoscono questo nome e lo ricordano sempre.
Con te e la tua crew, il rap sardo conobbe un periodo fiorente che via via è andato scemando, isolando la scena sarda dall’ambiente nazionale, se non per qualche eccezione come Salmo ed En?gma. Ti sei mai chiesto il motivo di questo declino e sapresti dire da dove proviene?
La cultura hip hop in Sardegna ha sempre espresso gente capace in tutte le discipline. La nostra isola è una vera ricchezza. Quel che vedo è sempre meno artisti che usano la nostra lingua, il sardo, e questo mi dispiace parecchio. L’italiano va bene, ma spesso crediamo di scimmiottare altri stili che agli occhi della gente sembrano fare più figo. Ammiro i sardi che oggi hanno saputo fare musica buona per il grande pubblico, ma vorrei che alcuni di loro riconoscessero pubblicamente il lavoro di realtà che hanno scritto la storia e che ancora oggi lavorano e vivono qui, lottano qui e resistono qui. In ogni caso io apprezzo molto il lavoro di questi artisti, stiamo parlando di gente che la musica la sa fare e che per ora viaggia bene, ed è giusto che sia così. Non vedo declino, vedo solo troppi ragazzi sognare lo showbiz senza accorgersi che la musica si fa per crescere e non per ambire soltanto ad una passerella o una vagonata di followers. La musica deve poter cambiare la tua vita in meglio anche con i soldi, ma oggi pare che i soldi siano diventati il solo vero Dio al quale tutti si prostrano.
Sulla base della tua esperienza è cambiato qualcosa nel percorso che un artista deve fare per emergere o sono cambiati solo i mezzi?
Ho attraversato almeno due generazioni. Sono cresciuto come essere analogico per poi diventare un essere digitale. Questa consapevolezza mi ha dato tantissimo. Non giudico mai e non mi metto a giocare con l’hip hop con le classiche pippe del “era meglio prima” oppure “è meglio adesso”. Un po’ di nostalgia c’è, ma solo perché oggi il senso di comunità di questa cultura si è sfaldato in nome di una solitudine artistica imperante. Oggi i mezzi sono potenti ma bisogna usarli bene, La musica di merda vi era prima come c’è anche adesso. Per emergere bisogna sempre prima andare in apnea e avere molto fiato, ma bisogna anche oggi essere capaci di gestire la propria immagine pubblica in maniera intelligente.
Sei un artista dinamico che è sempre in continua creazione, sviluppando situazioni, mood musicali, progetti. Cosa ti spinge in un mondo musicale fatto, nella maggior parte dei casi, di apparenza e poca street credibility, ad andare avanti?
Mi spinge semplicemente la voglia di trasmettere messaggi, di dire qualcosa. Mi spinge la voglia di ricercare. Se non hai il funk dentro puoi anche stare lì nel buio cosmico del rap game. Non è un atto di eroismo. Mi piace stare dentro la musica e mi piace anche stare dietro la musica. Molti oggi appaiono ma poi… scompaiono come vapore. Se vuoi essere credibile allora devi avere radici e i piedi incollati all’asfalto, questo non significa che devi stare con le pezze al culo, tutt’altro. Lo fai anche per lavorare, per svoltare qualcosa di buono. Spesso mi trovo ad andare molto oltre il rap per dedicarmi a progetti completamente differenti.
L’ultima volta che abbiamo chiacchierato mi hai raccontato che segui diversi progetti, anche grazie alla tua etichetta indipendente, che variano dal rap ad ogni sfumatura musicale. Racconta un po’ a chi si è perso questo tuo percorso cosa bolle in pentola dentro i tuoi studi.
Dopo l’esperienza come artista che ancora oggi porto avanti nel mio piccolo, ho creato questa mediafactory, nootempo.net che definirei una Non-etichetta. Nata ufficialmente nel 2007 come collettivo di produzione e oggi attiva in Sardegna e a Liverpool City. Ci occupiamo di progetti artistici indipendenti dando supporto come art direction e promotion. Dalla synthwave al trip hop, dal rap al reggae, insomma non abbiamo assolutamente nessuna preclusione di genere. Tutto con poche risorse e con il nostro piccolo ma funzionale network. Mi piace davvero creare progetti e seguirli anche se spesso non è facile, del resto non abbiamo dietro major o realtà grosse. Abbiamo la gente che ci supporta e ci dà una grossa mano.
Cosa ti influenza maggiormente? Ti senti più legato al rap isolano o a quello nazionale/mondiale?
Ascolto musica a 360° da sempre. Sono curioso, divoro qualsiasi sound, a volte passo ore solo ad ascoltare musica. Non mi faccio influenzare particolarmente e non ne faccio una questione di confini. Rock, pop, indie, world music, black music, che chiaramente è l’ingrediente base della mia cultura musicale, fino alla musica elettronica. Il Rap oggi occupa solo un 30% di quello che ascolto. Tutta la roba anni ’90 ma anche qualcosa di nuovo. Purtroppo non digerisco la Trap music anche se molte cose suonano bene. Soprattutto nel made in Italy, sento cose che mi fanno sorridere alcune, poi mi fanno proprio ridere. La Trap Music, lo dico senza nessuna polemica non è RAP, la trap music non è evoluzione tantomeno è per me rivoluzionaria. Quelle drum le sentivo già dalla fine degli 80’s. Ma tendo sempre a non demonizzare nulla. Ogni fenomeno musicale deve essere analizzato nel suo contesto per essere poi criticato in modo costruttivo. Non sono un purista e non lo sono mai stato.
Paragonando l’ambiente musicale sardo a quello nazionale, cosa pensi serva a quello nostrano?
La Sardegna è la mia nazione. Una questione lunga e complessa anche politica di cui non ho mai fatto mistero, che nulla c’entra con egoismi e leghismi vari. L’isola deve prendersi le sue responsabilità come popolo, come laboratorio culturale e artistico al centro del Mediterraneo, che possa essere accogliente e fucina di nuova musica, nuovi progetti. Noi dobbiamo imitare meno e pensare a rendere più originale il nostro stile , senza avere paura e senza viaggiare sempre con la testa sotto il culo. Siamo una terra incredibile e abbiamo tutto quel che serve, ma il percorso non è facile. Ci vuole consapevolezza. Nessuna chiusura, nessun muretto a secco, ma non possiamo sempre autodefinirci come terra ferma nel tempo, atavica e sfigata; questo atteggiamento spesso si trasmette anche nella musica e nella cinematografia. Le nostre radici sono estese. Nessuno è meglio dell’altro, ma ognuno esprime una sua diversità che si trasforma in ricchezza. Oggi poi con tutta ‘sta merda in cui viviamo è difficile parlare di popoli liberi. Non c’è nessuna rivoluzione mentale all’orizzonte.
Dal punto di vista linguistico, quanto influenza e quanto ha influenzato la tua musica la lingua sarda?
La lingua sarda nel mio percorso artistico è sempre stata vitale. In famiglia era raro che sentissi parlare il sardo nella sua variante campidanese. Pensavo che fosse un limite, che fosse la lingua delle emozioni che usi quando devi sbottare o la lingua degli anziani, invece non è così. Non ho usato sempre solo il sardo, se potessi userei l’inglese o il cinese se preferite, ma la mia lingua mi ha ispirato e fatto crescere. È naturale per me. Un grande spunto me lo diedero i Sud Sound System e il Salento dell’epoca e molta della produzione napoletana senza considerare tutta la scena chicana d’oltre oceano, Kid Frost per primo.
Il sardo, secondo te, potrà mai essere visto come una possibile via per il successo musicale, a livello globale, per via della sua unicità e musicalità?
Questo punto è un po’ complesso. Certamente la lingua sarda non è compresa dagli italiani ma che dire dell’italiano? Pensate che sia la lingua del pianeta Terra? Una cosa che mi piace sempre di più è usare il bilinguismo, cioè scrivere parti in sardo e parti in italiano. Questo magari mi aiuta a comunicare meglio. Il sardo ha un flow fantastico anche in termini di musicalità che suona come lo spagnolo o, meglio, l’inglese, mentre l’italiano è ricco di termini, è una lingua più tecnica quindi puoi lavorarci meglio se vuoi giocare con certe rime.
Il 2019 per Quilo?
Vivo nel presente perché ho imparato che fare programmi a lungo termine non mi serve. Non vivo di speranze, perché la speranza, come diceva Monicelli, è una infame trappola. Io lavoro, mi do da fare ogni giorno per creare qualcosa. Accolgo vittorie e sconfitte. Quel voglio è scrivere ancora e dedicarmi alla musica e al progetto di nootempo che porto avanti con mio fratello Gangalistics. Ho una grande esperienza che posso utilizzare. In tanti mi chiedono un album e ci penso sempre, ma per ora ho molte song nel mio hard disk ed è arrivata anche l’ora di dire ciò che penso oggi di certe situazioni. Io vivo nel Funk, i suckers vivono come parassiti, tra banalità e ignoranza. Non ho ricette e non ho cure per nessun male, qualcuno disse: “Io sono il numero zero…”. Ragazzi, tenete sempre la vostra curiosità, tenete le orecchie allenate e non fatevi fottere dai giochini che vedete in giro. Coltivate le vostre passioni e fate i vostri errori, ma non fatevi fottere.