
In occasione del Weekender del Jazz:Re:Found, tenutosi a Torino e a Biella dal 5 all’8 dicembre, abbiamo avuto la possibilità di incontrare Bassi Maestro per scambiare qualche parola sul suo nuovo progetto North of Loreto. È la prima volta che Bassi porta NOLO in terra sabauda, dimostrandosi molto entusiasta della possibilità di farlo in un evento ormai consolidato e con una forte reputazione a livello internazionale.
North of Loreto, uscito il 24 maggio 2019, è un ritorno alle origini, un tributo agli anni ’80 e alle sonorità electro funk e soul di quel periodo.Parliamo del tuo ultimo progetto, North of Loreto, che prende il nome da uno dei quartieri di Milano più in voga al momento – e che sappiamo essere anche la sede del tuo studio da ormai diversi anni. Cosa ti ha spinto a dare a questo album proprio il nome del tuo quartiere?
L’ho scelto perché cercavo un modo per sentirmi rappresentato. Volevo un nome che non fosse solamente comprensibile in Italia ma anche spendibile all’estero. Su Milano, North of Loreto è una realtà molto forte e io ne sono parte viva, da 2-3 anni collaboro con diverse situazioni locali. Ho visto questo quartiere rinascere piano piano da una situazione di degrado, ma mantenere un’identità ancora molto forte con le sue origini. Mi piaceva rappresentare il quartiere, in quanto la mia musica viene prodotta proprio lì.Ascoltando l’album si percepisce subito che non si tratta di un disco rap. Come tu stesso hai affermato, è stata una scelta fatta in quanto al momento non ti senti ispirato dalla scena odierna. In cosa ti senti lontano, stilisticamente parlando?
Non ci sono delle vere motivazioni, semplicemente non ho più voglia di continuare. È un ambiente che mi va molto stretto, pur essendo il punto di partenza della mia carriera. Ho iniziato da sound diversi, quelli che ho recuperato in North of Loreto, per poi iniziare a fare hip hop. Era un movimento musicale che stava nascendo in quegli anni, legato a culture afroamericane che erano una novità in Europa, era un modo rivoluzionario di fare musica. Al momento il rap è la cosa più sputtanata e meno interessante a livello musicale, tranne alcune eccezioni in America. Adesso mi sto concentrando a riscoprire culture musicali che ho sempre sottovalutato e che ho continuato solo parallelamente a seguire. Non rinnego il mio passato, infatti sto pubblicando vecchie raccolte per avere tutta la discografia completa sulle piattaforme digitali. Non voglio dare un calcio in faccia al passato, ma ho bisogno di rinnovarmi e rimettermi in gioco per quanto sia difficile.Quest’album è pieno di contaminazioni funk, soul, boogie e disco. Quali sono le influenze musicali passate e odierne che hanno portato al sound finale? E secondo te quali suoni non dovrebbero mai mancare in un pezzo che ti faccia “muovere il collo”?
Le influenze sono tutte di quegli anni, ma sicuramente con un occhio sul presente. Non vuole essere un progetto nostalgico, ma un disco tributo. Il materiale su cui sto lavorando vuole essere attuale, un po’ come il disco di Anderson .Paak con influenze che strizzano l’occhio al mondo dell’elettronica e produzioni molto raffinate. È vero, molta roba viene ripresa da 30 anni fa, ma nel mondo è il linguaggio del momento. In un pezzo non dovrebbe mai mancare il funk e il groove. Funk è la parola giusta per indicare un suono non necessariamente pulito, ma con una forte identità e personalità. Magari a volte anche un po’ sbagliata e un po’ sporca, ma che risulta efficace e con un appeal capace di farti muovere anche se non ti piace il genere.L’utilizzo del vocoder è una componente importante in molte produzioni, per esempio dei Daft Punk, tu che importanza gli attribuisci e come ha influenzato la tua musica?
L’ho utilizzato per camuffare la mia voce, in quanto non volevo utilizzarla nelle canzoni. È stata sia una soluzione, ma anche un tributo. In molti mi hanno detto che c’è molto vocoder, ma era una presa di posizione netta per prendere le distanze dal passato. Nelle prossime produzioni ci sarà comunque, perché ora che l’ho imparato ad usare vorrei continuare. Inoltre, l’utilizzo nei live può essere molto intrigante se fatto bene.L’album conta cinque collaborazioni, di cui tre internazionali (Diamond Ortiz in This is what you get, Domino in Do it like this e Saucy Lady in Plastic Love) e 2 italiane (Ghemon in 100 e Veezo in Lovin’ U). In base a cosa sono stati scelti gli artisti?
Prettamente per gusto personale. Volevo fare delle collaborazioni che non risultassero banali, che fossero facili da realizzare ma soprattutto appetibili sia sul mercato italiano che quello internazionale. In qualche modo sono riuscito in questo mio intento. Il pezzo con Ghemon, per esempio, è stato un esperimento ben riuscito pur essendo un po’ fuori dai suoi canoni, ma che comunque lo rispecchia artisticamente. È piaciuto e ha avuto un buon seguito soprattutto in Italia. Invece, all’estero c’è stata maggiore considerazione per il brano con Diamond Ortiz.Come hanno reagito i fan di Bassi Maestro a questo progetto, completamente diverso da quelli precedenti? Hai ricevuto il feedback desiderato?
I miei veri fan mi hanno supportato. A quelli che mi seguivano e mi vedevano un po’ come il paladino dell’hip hop sicuramente non sarà piaciuto. Ma il mio maggiore interesse era quello di fare una selezione, cioè eliminare la parte di pubblico che segue il rap del momento per poter ripartire da zero.Progetti per il futuro?
Al momento sto collaborando con il mercato internazionale. In contemporanea sto facendo dei re-edit, con un produttore di Amsterdam, di alcuni pezzi che solitamente utilizzo quando faccio il DJ. Sto anche lavorando a un nuovo progetto come North of Loreto, ma è ancora top secret. Sto cercando una formula che risulti completamente nuova, correndo anche il rischio che questa non venga capita e accettata da tutti.