

Eccoci tra le nostre righe per la prima volta nel 2020!
Vorrei raccontarvi di un mio incontro – non pensate male – sulla fine del 2019: un pomeriggio girovagavo sotto i portici di via Po, a Torino. C’erano molte bancarelle stracolme di libri di ogni tipo, argomento, colore e forma. In tutto questo bazar caleidoscopico, fu la scritta “non mi vergogno” ad attirare la mia attenzione sopra un cartellone pubblicitario.
Mi avvicinai e scoprii che era una gigantografia della copertina, appunto, di un libro: un’autobiografia per la precisione. Incuriosita, iniziai a sfogliare più o meno in modo distratto quel libro. Scoprii che era l’edizione italiana di Unashamed scritto dal rapper americano Lecrae Moore (meglio noto come LECRAE) con Jonathan Merritt (2016). Pubblicato in Italia da La Casa della Bibbia con il titolo: Storia di una rinascita. Non mi vergogno.
Mi è sorta subito una domanda: di che cosa non avrebbe dovuto vergognarsi l’artista?
Un’infanzia senza padri e patrie
Nato nel 1979, Lecrae, come molti afroamericani, è cresciuto a Denver – quartiere di Park Hill insanguinato dal crimine e segnato dalla droga – in un contesto familiare tossico, violento, esplosivo e senza un padre. Ciò gli causa un senso di vuoto che si trasforma in senso di abbandono, rabbia accompagnata dalla sensazione soffocante di non valere nulla. A questa deprivazione, Lecrae reagisce, ancora bambino, con machismo esasperato.
L’assenza paterna è balsamizzata, però, dall’incontro precoce con la subcultura Hip Hop: la canzone di Tupac Papa’z Song in particolare, ma anche quelle di Nas, del gruppo N.W.A., di LL Cool J, dei Beastie Boys e di MC Hammer riescono ad offrigli degli strumenti per rielaborare il suo vissuto personale e socio-familiare.
Nonostante l’hip hop gli infondesse speranza, gli avesse dato un’opportunità di rivincita e di espressione, la musica non sempre da sola riesce a superare tutte le ferite e traumi. In particolare, la violenza sessuale perpetrata dalla sua babysitter, quando Lecrae aveva appena sei anni. Questo lo porta da aver una visione di sé sessualizzata e distorta:
«Il mio cervello fu riprogrammato: da allora pensai di essere nato per dare piacere fisico alle ragazze.» (p.33)
Man mano, leggevo fatti molto duri e violenti narrati, con scioltezza e senza filtri, in modo molto attento e intimo: senza vergogna, appunto. Non per ostentare una thug life, o per vestire l’abito della vittima, quanto piuttosto per aiutare a dare un nome alle ferite di chi si trova nella stessa condizione. Il primo passo per rialzarsi e rielaborare i propri traumi è parlare.
Per le strade di San Diego con Big Momma e Zio Chris: incrocio di due mondi
Come Willy, il principe di Bel-Air, la mamma preoccupata – figura centrale per l’artista – a causa delle risse spesso immotivate, decide di mandarlo da sua nonna: Big Momma. Donna generosa, cristiana devota e praticante (p. 45), la nonna lo porta allo zoo, per fiere, in spiaggia e lo avvicina con delicatezza alla vita di Gesù. Gli insegna inoltre l’amore verso il prossimo e soprattutto nei confronti delle persone bisognose e grazie a lei riceve anche il battesimo. Un’altra figura fondamentale molto diversa da Big Momma è lo Zio Chris. Membro ufficiale delle Skyline Piru, gruppo affiliato alla gang dei Bloods, spaccia e consuma droga. Oltre a ciò è divertente, solare: fa conoscere al piccolo Lecrae posti nuovi e nuovi gruppi di amici. Perciò, presto diventa il suo eroe (p. 209).È tuttavia grazie all’amicizia – celata, per vergogna – con quattro ragazzi musicisti e compositori, vicini di casa della nonna, e lontani dal mondo spesso brutale delle gang, che Lecrae inizia a scrivere testi e a rappare: una scintilla si è accesa. Così matura una profonda e fondamentale consapevolezza: il mondo delle gang non gli permetteva di respirare la profondità, la bellezza e la creatività che invece l’arte dischiude. Questo lo fa sprofondare in una vera e propria crisi adolescenziale!
Alla ricerca della sua identità, in biblioteca, leggeva libri di religione e di filosofia facendosi molte domande su tutto. Testi delle sue poesie e delle sue canzoni iniziarono a diventare più densi, intensi, originali e profondi. Tuttavia la sua ricerca era annebbiata dall’abuso pesante di alcol, di droghe e dalla dipendenza sessuale. Ironicamente afferma:
«Iniziai a fare un po’ d’introspezione, a pormi delle domande sull’esistenza di Dio e sulla vita dopo la morte. Considerato il mio stile di vita, probabilmente avrei affrontato l’uno e l’altra molto presto, così pensai che avrei fatto bene a prepararmi»(p. 63).
L’Università: tra bacco, tabacco e Venere
Trasferito in Texas con la famiglia, nonostante il forte senso di inquietudine, di solitudine e un tentato suicidio, la mamma insieme al patrigno gli fanno capire l’importanza dell’istruzione per avere un posto nel mondo. Lecrae riesce a finire anche il liceo e ad iscriversi alla North Texas, vincendo anche una borsa di studio!
Tuttavia, il nuovo inizio si rivela poi un circolo vizioso fatto di donne, droga, alcool (p. 79) e spaccio. Ridotto in cenere, completamente lasciato a se stesso ed emarginato dai suoi compagni, si ritrova a depresso a girovagare nel buio. È un’immagine che ho trovato, molto struggente ed evocativa… mi ha fatta pensare all’inizio della Divina Commedia.
Ed è qui che incontra Art Hooker, responsabile di Move, movimento di evangelizzazione rivolto agli studenti afroamericani. Questa amicizia sarà il punto di svolta umano e anche artistico del rapper. Avvicinandosi al messaggio biblico e alla fede cristiana, grazie anche ad un evento ad Atlanta, inizia radicarsi in lui una speranza e una fiducia: ossia quella di essere prezioso agli occhi di Dio (Is.43, 1-7), scoprendo inoltre che il suo corpo era un tempio (1Corinzi 6:19) e che pertanto era bene rispettarlo, o comunque provarci!
La nascita di un cristiano riflessa nell’arte di un rapper americano
Circa a metà libro c’è l’inizio di una fantastica, ma anche sofferta, rinascita personale e spirituale, che mi ha portata ad emozionarmi tanto, ad empatizzare fortemente e a sentirmi a livello umano molto vicina al rapper americano. Soprattutto quando afferma:
«Finalmente ero stato liberato, ma sarei stato in grado di vivere da persona libera? Uno schiavo può essere strappato alla schiavitù in un istante, ma per strappare la schiavitù dallo schiavo ci vuole una vita intera» (p. 97).
Il rapper americano racconta in modo sincero e accogliente gli entusiasmi degli inizi della sua conversione, il loro affievolirsi, l’irrigidirsi nel moralismo, le dure cadute nella tossicodipendenza e della difficoltà di attuare autentici e profondi processi di cambiamento o di crescita, comuni a tutti credenti e non credenti. Lo fa in modo onesto, diretto, senza sconti, con spirito obiettivo e disincantato. Ne deriva un’immagine davvero composita.Questa autobiografia, pertanto, è –tra le tante cose – un invito a complessificare, a non banalizzare, a non incasellare riprendendo le parole di J-Ax (Dentro Me, Meglio prima (?), 2011) “i pensieri in scatole ordinate” e le persone in “preconcetti in buste preconfezionate” esaltando un’unica dimensione o aspetto immediato. Come afferma lo stesso Lecrae:
«non esiste alcuna categoria per ciò che Dio mi aveva chiamato a fare. La mia musica non era “gospel” e neppure musica cristiana era in netto contrasto con gran parte della musica “secolare”. Ironicamente, dovetti riconoscere di essere diventato quello che ero sempre stato. Fuori posto… Disadattato… Un’anomalia.» (p. 198).
Si delinea così immagine che di un uomo adulto, consapevole delle sue fragilità, cresciuto a pane e hip hop che vive di musica, crede in Cristo (p. 172); ma che è anche marito, un padre e un rapper che vuole glorificare Chi l’ha salvato dalla perdizione (p. 200), aiutando gli altri – non per forza credenti – ad accendersi di luce infinita, come afferma nella sua canzone Illuminate (2016) .Non mi vergogno è quindi una confessione vibrante, viva, che si scioglie con autenticità prepotente. Mi ha permesso di visitare posti reconditi del sé dell’artista e di fare luce anche nei miei. Inoltre, avendo una forte componente carismatica, a tratti mi ha incantata per la bellezza dei contenuti e per l’umiltà che l’artista raggiunge. Questo libro, credo francamente, che sia capace di sconvolgere positivamente di chi legge: tant’è, che è una delle migliori autobiografie io abbia letto fin ad ora: ed è anche la prima di un rapper americano. Sono davvero contenta di questo!
Oltre a ciò, ha un piglio critico forte. Affronta temi attuali non solo legati all’esperienza religiosa nel mondo d’oggi, come ad esempio: dividere il mondo in buoni e cattivi, oppure l’ipocrisia e la necessità di apparire sempre al top sui social. Guarda anche molto criticamente alle dinamiche negative legate alla cultura hip hop:
«Il problema dell’ hip hop popolare è che spesso esalta gli aspetti peggiori dell’umanità, arrivando talvolta a dare connotazioni positive alla violenza, perfino all’omicidio. O a promuovere atteggiamenti misogini, riducendo la donna a semplice oggetto. O a disprezzare l’istruzione, a esaltare la sessualità sfrenata e a idolatrare la ricchezza.» (p. 175).
Queste sono le stesse conclusioni a cui arriva anche Cesare Alemanni in Rap: Una storia, due Americhe. Pertanto, anche se questa autobiografia è del 2016, è ancora freschissima, efficace, potente e attuale.
Ho potuto, infine, rispondere alla mia domanda: di che cosa non doveva vergognarsi? Di essere Lecrae.
Non bisogna vergognarsi, infatti, di chi si è: siamo come meravigliosi poemi e in una società come la nostra non occorre che assomigliare che a se stessi, perfezionandosi ogni giorno…
Con un mood così comincio il 2020.