Nonostante le polemiche, Fine primo tempo, pubblicato per Sony il 21 febbraio, non è stato un album di rottura, ma un passo avanti nel percorso che Egreen aveva cominciato ormai vent’anni fa.
Nel disco emerge la disillusione di chi il gioco del rap l’ha vissuto in prima persona, ma anche l’espressione della crescita personale dell’artista.
Abbiamo fatto qualche domanda al rapper e vi lasciamo alle sue risposte, senza filtro, come sempre.
Ascoltando il disco, nel suo complesso, non mi è sembrato affatto un lavoro in rottura col passato, quanto piuttosto un passo avanti che si inserisce in un cammino già avviato. Come riassumeresti quindi il tuo percorso come Egreen? Quali sono stati i momenti che l’hanno maggiormente segnato, partendo dai primi anni, per arrivare ad oggi?
Non credo sia possibile riassumerlo. È stato il percorso più assurdo che abbia mai visto in questo ambiente e, comunque, non mi sento di essere in una posizione in cui poter affermare di ‘avercela fatta’. Non ho fatto un bel niente, se non aver portato avanti in maniera estenuante, un millimetro alla volta, tutta ‘sta cosa che non saprei neanche bene definire, da 18 anni a questa parte.
Credo che, in primis, mi abbia segnato la gavetta. È stata davvero lunga e logorante. Bricks & Hammers è stato un disco che ha silenziosamente iniziato a cambiare le cose, mentre ICELF, be’, sappiamo tutti che tipo di reazioni ha generato. Poi il crowdfunding, le conferme con Entropia 2, un’altra valanga di live e di barre. Infine eccoci qua.
Il rap è uno dei migliori mezzi attraverso i quali il contesto sociale presente si racconta. Ormai non c’è nulla di nuovo nel constatarlo. È impossibile non leggere nel racconto che un rapper fa di se stesso anche il racconto della società nel quale egli stesso si inserisce. Com’è cambiato questo racconto nella scena italiana rispetto agli inizi del 2000? Quanto, invece, il cambiamento dell’ambiente che ti ha circondato in questi anni ha modificato il racconto che fai di te stesso attraverso le rime?
È cambiato il modo di esprimere le proprie emozioni su una strumentale. Credo siano state stravolte le regole, senza volerle riscrivere. Penso sia stato sdoganato e assimilato il concetto di fare rap come lavoro, di produttività, di costanza nel tempo. Allo stesso tempo credo che, a 18 anni, si dia importanza ad alcune cose, a 25 ad altre e a 35 (se ci arrivi facendo ancora musica) ad altre ancora. Ogni genere musicale è figlio del suo tempo in tutte le sue sfumature, il cambiamento è inevitabile. C’è sempre stata la musica di merda, quella passeggera, quella originale, quella di qualità e quella destinata a rimanere nel tempo. Gli scarsi c’erano anche nel ’96, come negli anni zero (no, forse nel 2000 c’era così poca gente nella scena rap italiana che risultava più difficile vedere rapper scarsi. Anzi, probabilmente eravamo noi, quasi certamente ero io ahah).
Quando mi sono reso conto che qualcosa era cambiato, nel gioco e nell’ambiente, ho cominciato a pormi delle domande. Era inevitabile rendersi conto che la musica aveva subito un reale cambiamento a 360° e, personalmente, ho iniziato a mettere tutto in discussione. Questo mi ha portato a compiere un reality check di me stesso, di quanto fossi nel giusto. Esistevano ancora ‘il buono e il cattivo’, ‘il real e il fake’?
Dieci produttori per quindici brani. Com’è stato adattarsi al mondo di beatmakers così eterogenei? La tua scrittura è stata influenzata dalle sonorità delle diverse strumentali?
Onestamente, non è cambiato un cazzo. Ho preso i beat, li ho scelti, li ho ascoltati, interiorizzati e ho scritto, come sempre, da sempre.
Axos, Dium, Highsnob, Vaz tè: cosa accomuna questi nomi e che ruolo assumono in Fine primo tempo?
IMHO, li accomuna la freschezza e la diversità, sia fra di loro sia nei miei confronti. Ho scelto ciascuno per motivi diversi e sono veramente felice di aver portato a casa un prodotto finale di livello.
In Raddoppio, come anche in I SPIT vol. 0 nel 2009, citi Esa affermando “questa è guerra”. A cosa ti riferisci?
Esa è stato, assieme a Neffa, Deda e Kaos, una delle figura artistiche che più mi ha segnato. Credo, negli anni, di averli citati così tante volte che ho perso il conto. A ‘sto giro, però, si tratta di una citazione provocatoria. Nel pezzo in oggetto non c’è nulla a favore della vecchia guardia, nulla a favore della realness.
Ho chiuso affermando “questo è hip hop? Col cazzo questa è guerra” e chi vuole capire, se non è un coglione, capirà.