
Dopo che mi ha tenuto compagnia per qualche giorno tramite la sua voce (e quella di tanti altri artisti), sento Francesca Michielin per telefono mercoledì scorso. Le chiamate sembrano ormai l’unico mezzo per restare in contatto con gli altri e non farci isolare in casa: «Ti dirò, sono molto stoica, cerco di accettare tutto ciò che mi succede. Sto comunque affrontando questo momento con positività, anche scegliendo di non posticipare l’uscita del disco e farlo uscire, come previsto, venerdì scorso.» Già, perché l’epidemia impazzata in Italia da qualche settimana ha riscritto molte delle nostre abitudini quotidiane, ma per fortuna non ha bloccato le uscite discografiche. Nonostante il dialogo al telefono, in una giornata soleggiata come questa, in cui i parchi sarebbero stati sicuramente pieni in condizioni normali, ti faccia venire molti rimpianti…
A più di due anni di distanza da 2640 torni con Feat. Cosa hai fatto in questo lasso di tempo?
2640 è stato molto un disco molto personale, a tratti ermetico. Il periodo post album in realtà è stato abbastanza breve, perché immediatamente dopo il Tour sopra la techno sono andata a fare una vacanza in Brasile per riprendermi ed in seguito mi sono rimessa in studio. Essendo un disco così eterogeneo, vario, mi sono presa molto tempo per stare in studio, 13 mesi totali, in cui ho chiaramente lavorato e nel mentre ho continuato a studiare jazzal Conservatorio. Sono stata dedita al lavoro ed allo studio per tutto questo tempo!
La formula del disco è di per sé particolare: 11 brani, 14 collaborazioni. Non c’è il rischio che non sia visto come un disco tuo? Soprattutto dopo che in 2640 non avevi previsto nessuna collaborazione, eri tu all’ennesima potenza.
Ho iniziato a fare collaborazioni quando ancora andava di moda, nel 2012 con Fedez, per proseguire con vari esponenti della scena urban, da Don Joe a Carl Brave. Ti dirò di più, in generale tutti i miei dischi vantano un team di scrittura specifico ed ampio: il primissimo vedeva affiancarmi Elisa, poi nel secondo c’erano molti autori importanti del momento, nel successivo ho lavorato con tanti esponenti dell’itpop (Calcutta, Tommaso Paradiso, Cosmo). In questo caso la mia volontà non era tanto fare un disco di featuring per il gusto di farlo, quanto più fare una celebrazione di collettività, non toccando solo l’urban ma anche altri ambiti. Avendo io sempre fatto featuring nei progetti degli altri ci stava fare un progetto che vedesse me circondata da artisti di un certo tipo, ed essendo l’eterogeneità la mia caratteristica da sempre, chi mi conosce, ascoltando il disco, sente un lavoro molto coerente per quanto sia molto diverso.
Come hai scelto i vari artisti presenti?
Li ho scelti perché sono artisti che stimo molto.
Andando in ordine, i Maneskin li ho chiamati perché, avendo scelto di aprire il disco con un pezzo crossoverche tocca il rock ed il rap tipico dei Rage Against the Machine, credevo che loro fossero una delle poche realtà credibili in ambito rock. Poi Damiano ha un bellissimo flow, volevo la sua prospettiva maschile in un brano che parla anche di femminismo.
In Monolocale ho scelto Fibra perché per me è un idolo! Io ho sempre avuto un’indole rockettara, sin dall’infanzia, lui era già famoso quando io ero alle elementari… Non so, l’ho sempre visto come un artista completo, con un attitude rock, poi con lui mi sono trovata benissimo.
Gemitaiz l’ho scoperto negli ultimi anni, ho sempre amato di lui questo flow molto particolare, con questa ritmicità che ho trovato poco in altri artisti. L’ho chiamato perché sarebbe stato molto credibile in un brano dal chiaro sound reggae.
Shiva delle nuove leve è uno degli artisti più interessanti, lo conosco già da un po’ e l’ho sempre trovato interessante. Considera che io la trap non l’ascolto tantissimo, Shiva è quello che mi piace di più. Ho provato a portarlo in una dimensione non propriamente trap, anzi molto fine anni ’90/inizio ’00, più hip-hop.
Con Carl e Max Gazzè ci avevo già lavorato, li ho chiamati come fossero degli amici, idem Elisa e Dardust. Charlie Charles l’ho scelto per la sua capacità di rendere minimale un beat, pochissimi suoni resi all’ennesima potenza, mi piaceva l’idea di trasferire questo in un brano super-pop. Stessa cosa per Fred de Palma, è uno di quei rapper super sentimentali, che sa unire questa profondità e questa dolcezza ad una crudezza tipica dell’hip-hop, come quando nella sua strofa dice “il dubbio che i fulmini cerchino il ferro dentro il mio sangue, sì, per colpirmi”. Finiamo con Giorgio Poi è l’esponente indie che mi piace di più ultimamente, con una scrittura molto fresca…
Com’è nata la tracklist? Perché sembra che col passare delle tracce cambino pure le stagioni, dalle prime più dure sino a Star Trek e Leoni, decisamente più estive.
Vero, verissimo. Il disco è stato scritto in tanti mesi, naturalmente ci sono più fasi di scrittura, mi piace anche che i dischi abbiano delle dimensioni un po’ più oscure, più dark come Stato di natura o Riserva naturale ed altre più spensierate. Mi piaceva che i brani più “estivi” fossero alla fine, come a rappresentare una specie di viaggio, una sorta di ripartenza.
Un topic che salta subito all’orecchio è l’amore. Com’è andata poi a finire poi col “cantante delle medie” coi rasta che ti piaceva un sacco (in Sposerò un albero)?
Quella frase è dedicata proprio al cantante dei Rage Against the Machine! Mi piace molto questa cosa che i brani in qualche modo si richiamino l’un l’altro, infatti come detto sopra Stato di natura è un modo per celebrare il mio amore per quella band.
Ed invece La vie ensemble, che è (quasi) interamente in francese?
Quel brano è nato per creare una sorta di gioco di lingua, è un brano che richiama quella dimensione folk nostalgica negli anni ’90. Max, che ha anche vissuto in Belgio ed ha sempre avuto questo grande amore per la sperimentazione, ha voluto partecipare a questo pezzo. Il francese ti permette anche di dire delle cose ed usare dei suoni ritmici molto particolari. Mi ha divertito molto questa collaborazione.
L’altro grosso topic è il connubio tra natura e musica. Arrivando tu da Bassano del Grappa, come sei stata accolta da una città che, all’apparenza, può sembrare tutto fuorché verde come Milano?
Il disco nasce da questa voglia di trovare un connubio tra il mio sentirmi sempre in bilico tra due realtà completamente diverse e trasformare questa sensazione iniziale di disagio che ho provato in qualcosa di positivo, perché poi la musica ha anche spesso questa funzione. Essendo sempre stata abituata alla dimensione della natura più bucolica e spensierata, che è quello che caratterizza la provincia in generale, andare a Milano, realtà metropolitana, caotica, che ti fa sentire un po’ schiacciato è un cambiamento importante. Di questo ne ho anche parlato con Fibra, che come me condivide l’arrivare da una dimensione diversa… Riflettevamo che gli outsider regalano alla città qualcosa che essa stessa non ha. Forse il gioco è, se sei un outsider, non cercare nella città quello che ti manca. Dovresti sapere che quello che hai dentro non lo perdi, al massimo puoi sfruttare questo momento per arricchirti come persona, oltre che come artista.
Tornando sull’eterogeneità del disco, come definiresti Feat? Ha ancora senso, nel 2020, etichettare la musica in generi? Penso anche alla polemica dei Grammy, col Best rap album assegnato ad IGOR di Tyler, che di rap ha ben poco…
Già, anch’io l’ho pensato! Guarda, secondo me tutto questo progetto si basa su due concetti fondamentali: confronto e contrasto (che tra l’altro hanno proprio la stessa radice, il con). E comunque il ruolo dell’artista nel 2020 è quello di fare scelte e di sradicare in qualche modo i cliché. Quando le persone dicono “Ah, da Shiva mi aspettavo un feat trap” mi fa ridere, perché non è vero, lui lì ha usato l’autotune, che è una cosa tipicamente trap. Mi piace molto che l’artista possa rompere in qualche modo quegli schemi e quelle certezze… Quando arriviamo da decenni di musica di un certo tipo, non è detto che si debba creare qualcosa da zero ma si debbano commistionare più cose. I rapper sono diventati molto più mainstream degli artisti che prima erano definiti pop per alcune cose, c’è questo costante ricambio del linguaggio che è molto interessante.
Visto il periodo di quarantena che stiamo vivendo, 3 libri e 3 dischi che consiglieresti a tutti!
Allora, parto coi dischi e te ne dico tre abbastanza diversi tra loro: Father of the Bride dei Vampire Weekend, uscito lo scorso anno, tra l’altro il frontman Ezra Koenig è uno che sperimenta molto con l’autotune, per chi ama il rap credo che i Vampire, nonostante possano sembrare molto distanti, risultino freschi e piacevoli da ascoltare. Poi io in questi mesi ho ripescato The Black Album di Jay-Z, 99 problems è stato uno dei brani che mi ha ispirato molto in questo momento, e consiglierei anche I used to know Her di H.E.R. , che sa unire r’n’b, musica classica, rap, lei mi piace tantissimo.
Per quanto riguarda i libri, siccome ho un parte della famiglia in giro per il mondo e ho letto molti libri che appartengono alla cultura brasiliana, c’è questo libro bellissimo intitolato L’uomo o il cane? di Joaquim Maria Machado, autore latino che mi piace tantissimo. Tutta la dimensione del realismo magico mi ispira, sto leggendo molto Italo Calvino… Poi c’è un libro che ho trovato fantastico: Storie della buonanotte per bambine ribelli di Francesca Cavallo ed Elena Favilli.
Prima di lasciarci, veniamo alle tue grandi passioni… Prima che si fermasse tutto, il Vicenza era primo in serie C; l’anno scorso invece Fernando Alonso ha vinto la 500 miglia di Indianapolis. Quanto è complicato tener fede alle proprie passioni sportive?
Sicuramente complesso! Secondo me il calcio, e lo sport in generale, hanno in comune con l’amore l’aspetto passionale più viscerale. Io molte partite non riesco neanche a vederle perché mi agito all’inverosimile, piuttosto che varie gare sportive!