

“I just wanna be everybody’s everything, I want too much from people but then I don’t want anything from them at the same time, u feel me? I don’t let people help me but I need help, but not when I have my pills, but that’s temporary – one day maybe I won’t die young and I’ll be happy. What is happy? I always have happiness for like 10 seconds and then it’s gone. I’m getting so tired of this”
Così recitava uno degli ultimi post su Instagram di Lil Peep, prima della sua morte avvenuta il 15 novembre 2017, mettendo a nudo la propria depressione e insoddisfazione verso se stesso.
È proprio da questo che prendono il nome la prima raccolta del rapper statunitense, pubblicata esattamente due anni dopo la sua scomparsa, e il documentario diretto da Sebastian Jones e Ramez Silyan, disponibile sul catalogo Netflix dal 4 marzo 2020 (leggi tutti i titoli a tema musica che vi consigliamo).
Un uomo, due anime
Everybody’s Everything racconta l’ascesa di Lil Peep da bambino dagli occhi dolci a ribelle insicuro, e infine a stella in difficoltà, prendendo spunto da riprese domestiche, clip di performance, fotografie, filmati del tour e video di Instagram. Nella durata di due ore, il film non intende moralizzare i demoni del rapper, ma catturare il suo dualismo: Lil Peep, l’icona musicale con una vita piena di eccessi e Gustav Åhr (vero nome dell’artista), un’anima vulnerabile e gentile.Esecutivamente prodotto dalla madre di Peep, Liza Womack, insieme al CEO della sua agenzia e etichetta First Access Entertainment, Sarah Stennett, e all’autore esistenziale Terrence Malick, il documentario offre un ritratto intimo e umanistico. Liza ha infatti spiegato di aver ricercato filmati che catturassero al meglio l’essenza del ragazzo che aveva cresciuto.
Seppur queste intime intenzioni brillino nel susseguirsi dei minuti, il film racconta anche alcuni degli aspetti più controversi della sua persona e della sua arte.
Prima di Lil Peep, l’adolescenza di Gustav
La parte più rivelatrice del film si concentra sull’adolescenza di Peep, riuscendo a dare un contesto al dolore raccontato così tanto nella sua musica. A guidare il racconto sono amici e collaboratori, che lo descrivono come un ragazzo desideroso di ribellione con ogni fibra del suo essere verso l’ambiente di periferia in cui era cresciuto, e che lo portò a trasformare il suo corpo con tatuaggi e capelli rosa neon in un cartellone di resistenza. Ma a lasciare una ferita profonda nell’animo di Peep fu la separazione dei suoi genitori e l’assenza del padre nella sua vita. Da quel momento iniziò a rintanarsi nella sua camera da letto, per esorcizzare i suoi demoni attraverso la musica.Grande baluardo contro il caos della vita di Peep è stato suo nonno materno, John Womack, che il documentario presenta come suo modello maschile e figura che ammirava devotamente.
La voce del nonno, che legge frammenti di alcune lettere scritte al nipote, risuona in tutto il film, fungendo da nucleo emotivo. Passando dalle condoglianze per una bici rubata a dei semplici consigli, si rivolge al suo amato “poeta tatuato” con empatia e rispetto. Accompagnate da una colonna sonora curata da Patrick Stump dei Fall Out Boy, queste sequenze raggiungono una qualità contemplativa.
Epilogo
Il film non evita le tragiche circostanze della morte di Peep e mostra invece una serie di immagini per enfatizzare l’orrore. Un video di Snapchat che mostra Peep incosciente nel background, la frenetica chiamata del 911 del tour manager, una foto del corpo senza vita sul pavimento, coperto da cuscinetti del defibrillatore. Sebbene il rapper abbia predetto più volte la sua morte prematura, vedere il suo corpo senza vita lascia lo spettatore con una forte sensazione di angoscia.