In questo periodo di quarantena obbligatoria torniamo a tenervi compagnia con una nuova puntata di Rewind, la nostra rap-retrospettiva: un tuffo nel passato attraverso il quale potrete riscoprire album, provenienti dal panorama Hip Hop sia italiano che internazionale, che non vogliamo dimenticare. Simile ad una macchina del tempo itinerante, i vari episodi che andranno a comporre la rubrica avranno il compito di riportare alla luce quei dischi seppelliti nei meandri della memoria, belli o brutti che siano, o perché no, farvene scoprire di nuovi.
Oggi, nel giorno del suo diciassettesimo anniversario, rendiamo omaggio a un classico dell’hip hop italiano per fama e importanza. Il 23 aprile 2003 i Club Dogo pubblicano il loro primo album ufficiale Mi Fist, la risposta milanese a Tokyo Fist, un malatissimo film di Shinya Tsukamoto. A 17 anni di distanza tutto è cambiato, autori del disco compresi, ma Mi Fist continua a rimanere l’album che cambiò irreversibilmente il rap italiano.
Proviamo a spiegarvi il perché.
Testi
Il livello tecnico dell’intero disco è indubbiamente molto alto. Sono passati più di tre anni dall’esperienza Sacre Scuole e i cambiamenti sono evidenti. Jake “Fame” La Furia appare in un eccellente stato di forma e sforna versi dalla carica eversiva non indifferente. Si incastra a meraviglia con Lucky “Guercio” Luciano che è maturato, e di molto. I suoi versi captano subito l’attenzione dell’ascoltatore unendo citazioni e contenuti. Preciso e attento.
Scrivere e sputare rime affilate e mai edulcorate è un’esigenza per entrambi, che si colma e si perfeziona con i suoni innovativi di Don Joe.
I feat non reggono il confronto, con una sola eccezione: Tana 2000, dove al fianco di Jake e Guè troviamo Dargen D’Amico che sfodera un impressionante extrabeat dal sopraffino livello tecnico. Street knowledge, storytelling, recriminazione sociale, innovazione. Tutto presente.
Cronache di resistenza e La stanza dei fantasmi per credere.
Strumentali
I produttori, spesso trascurati, sono essenziali in ogni album, ma in Mi Fist troviamo qualcosa di più. Don Joe, assoluto idealista del suono, svolge un lavoro integrale che si spinge oltre alla sola produzioni del beat. Per la prima volta Mi fist porta in Italia un suono nuovo: campionamenti, batterie, breakbeat. Tutti elementi di innovazione, sconosciuti nel periodo precedente delle posse. L’influenza musicale oltreoceano è sicuramente evidente, ma le sonorità viaggiano tra dancehall, rap tradizionale e reggae di cui sono fanatici. Il produttore cresciuto a Bresso viene affiancato da Frankie Gaudhaze, in Tana 2000, da DJ Paolino in Hardboiled e dallo stesso Jake assieme al quale produce Vida Loca e Kyobo Ni Tsuki. Gli scratch e i cuts sono invece affidati a DJ Mebi e DJ Zed.
Le sonorità di Mi Fist sintetizzano lo spirito con cui l’album stesso è nato: scrivere per bisogno, descrivere Milano, con l’idea di fare delle serate, di andar in giro e farsi sentire.
L’Intro del disco rimane ad oggi una perla assoluta, impressa nella mente di qualsiasi appassionato di rap.
Stile
Per analizzare Mi Fist bisogna far uno sforzo mentale e provare, per quanto possibile, a immaginare il quadro temporale dell’epoca. Milano, 2003. Non esistevano né le opportunità né i mezzi di adesso, non vi era alcuna major a supportare la release, non esisteva nessuna Dogo Gang. L’idea di campare con la musica, tanto più se rap, era poco percorribile. Non vi erano esempi o precedenti. Tre amici che arrivavano da esperienze di mixtape, super underground, senza grandi aspirazioni, danno vita a un disco con il solo obiettivo di rappresentare un suono e una città. Sin dalla Intro l’ascoltatore viene catapultato nella Milano del tempo: ci sono i posti, le strade, i locali, i booster, le marche di vestiti, la droga, le risse, le donne. Può piacere o meno, ma il risultato che ne deriva è affascinante.
All’epoca lavoravamo tutti, e conta che Mi Fist l’abbiamo fatto tutto a mano, da portare a stamparlo fino a distribuirlo, dando i CD alla gente alle serate, andando in posta.