
Il 24 aprile 2020 Ghemon ha pubblicato Scritto nelle stelle per Carosello Records/Artist First e Macro Beats Records. L’album segna nel firmamento musicale dell’artista la chiusura di un trittico iniziato con OrchIdee e proseguito con Mezzanotte, in cui il lato MC si è fuso sempre di più con quello cantautorale. E se, come abbiamo detto nella recensione, tante costellazioni del suo microcosmo si incontrano in queste tracce come mai prima d’ora, si riconferma punto cardine l’essere in controtendenza rispetto al resto del panorama italiano.
Anche per farci raccontare del suo andare fieramente controcorrente, pur restando sempre fedele a se stesso, abbiamo deciso di intervistare Ghemon.
Ciao Ghemon! Senza dubbio, questo è un momento particolare per pubblicare un album, soprattutto per chi, come te, concepisce la musica come una forma di dialogo. Come stai vivendo questa situazione?
È un periodo particolare nel periodo particolare. All’inizio ho vissuto questo momento per quello che è, poi essermi dovuto attivare per fare ciò che serve per sostenere l’uscita di un album è stato strano, ma mi sono adattato. Sicuramente è stato inusuale anche non aver potuto incontrare le persone con cui vengo a contatto in questi casi e i fan, ma le occasioni, anche in maniera nuova, son state tante. Il tempo si è riempito ed era sicuramente ciò che mi serviva. Se non avessi fatto niente, anche se non sono capace di stare con le mani in mano, probabilmente il tempo sarebbe passato molto più lentamente. E invece questi due mesi, seppur con i casini che hanno tutti, sono volati.
Al di là dell’emergenza, l’uscita di Scritto nelle stelle, in un certo senso, era già stata rimandata una volta, otto anni fa. Accanto al titolo c’era un numero, 440, frequenza per accordare uno strumento. In una diretta hai detto di non averlo ri-utilizzato perché ti senti finalmente “accordato“. Cosa intendi con questa espressione?
Ci sono tante maniere per essere “accordato”. OrchIdee è stato una tesi da provare, Mezzanotte chiaramente un’antitesi e Scritto nelle stelle una sintesi. E una sintesi si può fare solo quando si hanno chiari tutti quanti gli elementi, quindi si può dire che essere “accordato” è sicuramente avere le idee chiare su quello che si è e non si è. Nonostante la vita sorprenda ogni giorno, penso di sapere cosa sono, nelle parti positive e in quelle negative. Spesso si fa fatica ad abbracciare sia le une che le altre, nel senso che a volte non vogliamo bene neanche ai nostri pregi. Delle volte, invece, sono più convinto di quelli e conosco anche un po’ meglio i miei difetti. Quindi “accordato” può essere inteso sia a livello umano che musicale, perché sono dimensioni che vanno di pari passo.

440/Scritto nelle stelle sarebbe dovuto essere l’ultimo album con il rap come mezzo di espressione, ma non è stato così. Cos’è, allora, che ti spinge ancora a rappare? E ha a che fare con la definizione di rap in quanto “young man’s sport” come dice Jay-Z?
Faccio spesso questo riferimento, perché credo il rap sia uno strumento fresco, immediato e che si possa sempre aggiornare. Infatti, continuo a rappare perché ho trovato dei nuovi stimoli. Quando questo è mancato, mancava la voglia di farlo e sentivo che ci fosse un’altra parte di me che non si stesse esprimendo. Per me era importante non farla stare zitta. Poi, quando mi sono riappropriato delle mie cose e queste si sono messe in pari, ci sono stati gli stimoli diversi per rappare, rinfrescare e svuotare e allora ho continuato. E questo anche perché mi diverte, mi piace e sono un fan del rap.
In un’intervista hai parlato di Un’anima divisa in due, biografia di Marvin Gaye, e hai raccontato che anche tu ti sentissi un’anima spezzata a metà. Ciò emerge in Mezzanotte, invece in questo album sembra tu abbia preso consapevolezza che la tua anima abbia ancora più sfaccettature. A cosa è dovuto questo cambiamento?
Come ho detto prima, la parte personale e la parte artistica corrono parallelamente. Quando rimetti un po’ della merda della tua vita insieme, fai dei mucchetti e poi alcuni di questi vanno a finire nell’immondizia e li butti. La casa, allora, diventa vuota e devi iniziare a pulire e ricostruire, a fare ordine. È a questo punto che non mi sono più sentito “diviso”, ma “tirato insieme”. E questo, secondo me, è il risultato del disco. Un disco che non dice semplicisticamente “è tutto a posto, tutto risolto”, ma che dice “accetto quello che è stato, accetto quello che sono e vado avanti”. Poi forse l’“anima divisa” resta lo stesso, oppure non c’è. Ad ogni modo, la priorità non è più far parlare solo quell’”anima divisa”, ma anche il cervello, la pancia.
I mutamenti di cui hai parlato si notano anche a livello visivo. Infatti, se in Mezzanotte non eri parte della copertina, ora sei tornato ad esserlo come in tutti i tuoi dischi, a parte E poi, all’improvviso, impazzire.
In effetti Mezzanotte e E poi, all’improvviso, impazzire, si somigliano discograficamente, essendo i secondi dischi di un trittico. E credo che ci stia attraversare una fase in cui non si abbia per forza voglia di mostrarsi. Probabilmente la prossima copertina la farò di spalle, in modo che ci sia sempre io, ma in maniera diversa (ride, ndr).

Un punto in comune tra i tuoi ultimi tre dischi, invece, è l’assenza di featuring, aspetto che va in contrasto col resto della scena musicale. Come mai questa decisione?
Non mi piace fare ciò che fanno tutti gli altri, ma al di là di questo, per me la questione featuring era superata, perché avevo molte cose da dire e non era mio interesse farle dire a qualcun altro. Questo perché, per me, lo strumento del featuring è trovarsi nella stessa sensazione per fare un pezzo, non “qui c’è una strofa vuota, fanne una tu”. È stare nella stessa parte d’umanità. Poi, ovviamente, il featuring è anche una cosa divertente e la musica è anche un punto di incontro, quindi magari capiterà in futuro, ma con l’intento di non fare qualcosa che sembri posticcio.
Il tuo essere in controtendenza non sta solo nel non essere stato affiancato da altri interpreti, ma anche nell’aver scelto come primo singolo un brano che non rientra canonicamente in questa definizione. È stato proprio per Questioni di principio, come recita il titolo?
La scelta è, come hai detto, in controtendenza, perché dopo essere stato in silenzio per molto tempo, escluso Rose Viola, volevo parlare alla mia comunità, a quelli che volevano e dovevano capire come io mi posizionassi e dove stessi per evitare fraintendimenti. E devo dire sia stata una scelta fortunata, perché è stata molto apprezzata. Una scelta di sostanza, più che per badare ai numeri, anche se poi sono arrivati anche quelli.
Del tuo andare controcorrente ne parli anche nel terzo estratto, Buona Stella. In questo, canti anche “solamente che poi non mi godo proprio niente/ del presente perché penso quasi sempre al dopo”. L’ultima domanda, allora, è questa: qual è il “dopo” di Ghemon? Altra musica o un progetto che coinvolga una delle tue tante passioni come la stand-up comedy?
Su questi argomenti il cervello è sempre acceso: sto sempre elaborando che cosa potrebbe accadere dopo. Questo periodo che stiamo vivendo, però, mi ha sia insegnato che “costretto” a pensare a un giorno alla volta, perché fino a poco fa non c’era neanche troppo la possibilità di proiettarsi molto in avanti, essendo poche le certezze. Quindi, al di là dei pensieri di ciò che vorrei fare dopo che ci sono, ora sto cercando di fare il massimo per dare a questo disco a cui ho lavorato per un anno tutta l’importanza che merita.