Segui le nostre dirette sul canale IGTV di @lacasadelrap

Approfondimento

“Il rap spiegato ai bianchi”: Wallace e Costello, un incontro felice

il rap spiegato ai bianchi

Perché fare oggi un approfondimento su quello che è una delle prime appassionate indagini sul rap americano, ossia Il rap spiegato ai bianchi di David Foster Wallace e Mark Costello, edito Minimum fax (2019), giunto ben alla terza edizione?

I perché sono tanti, così come tanti sono gli aspetti che mi piacciono di questa forma musicale ed espressiva. Se siete tra queste righe, anche voi condividete un interesse per questo territorio culturale: che bello! Appurato, quindi, che questo è il genere musicale capace di “farvi rimanere sotto” dandovi sensazioni interessanti, vorrei sapere: perché vi piace? Oppure: perché non vi piace e v’infastidisce così tanto da dover leggere un articolo sul tema?

il rap spiegato ai bianchi

Storia di due amici di Boston

Magari questo interesse è nato all’improvviso in un fine settimana come altri, oppure tra i banchi di scuola, o ascoltando la radio, sbirciando da persone più grandi, oppure grazie un link su qualche social. Nel mio caso sono state diverse amicizie, in vario modo appassionate all’Hip Hop, ad avvicinarmi al rap. Non le ringrazierò mai abbastanza.

Anche Il rap spiegato ai bianchi parla di un’amicizia nata all’università, condividendo letture, serate in vari locali e due mixtape di rap. L’introduzione scritta da Costello, oltre a raccontare i momenti più scanzonati, fin da subito, non nasconde i macigni della depressione, che sarebbero caduti addosso all’amico poco tempo dopo, delineando una visione cupa della vita, che si rifletterà anche nelle sue altre opere letterarie successive. Wallace fu un grande scrittore americano!

Pertanto, anche se ci sono degli elementi vivaci e divertenti, questa indagine pionieristica a due mani sul rap ha un sottofondo quasi depresso, malinconico andante e un po’ postumo.  È comunque molto stimolante, perché i due giovani cercano di afferrare quel bruciante “panta rei” vibrante, contraddittorio, esplicito e così d’impatto che era il rap americano nell’89. Ne emerge un mondo, un linguaggio, con le sue figure, i suoi stilemi e i suoi lati elettrizzanti, sensuali, complessi, caleidoscopici e controversi, oppure semplicemente diversi dell’esperienza a cui questi due ragazzi bianchi erano abituati. Insomma, un vero e proprio «terremoto culturale» (p. 38).

david foster wallace
David Foster Wallace, co-autore de Il rap spiegato ai bianchi

I riflessi urbani tra le pagine

Qua e là ci sono passaggi molto condivisibili e ancora attuali. Ad esempio, io condivido con gli autori questo:

«un entusiasmo imbarazzato, quasi furtivo, e decisamente bianco, per un certo genere di musica chiamato rap/hip hop» (p.57).

Mentre attuale, per essere stato scritto trent’anni fa, è questo passaggio:

«Fondamentalmente, abbiamo deciso che il motivo per cui ci piaceva il rap era che, anche lasciando da parte le gonfiature dei media, questo genere di musica era agguerrita, aveva del mordente» (p. 93).

Infatti, il rap ha sempre parlato, in un eterno qui ed ora, di «DrogaViolenzaAviditàDisperazione come una scelta artistica che è essa stessa la sineddoche di una serie di scelte di vita…» (p. 91). Spesso, non mette in luce belle situazioni, emozioni e ricordi desiderabili,  ma «roba che ti resta» (p. 126). La Scena nasce dalla sofferenza, così come il talento, da qualcosa d’infernale in cui a noi «ci piace guardare ci piace fare i guardoni» (p. 129)!

Leggi anche:  Sandman racconta nel suo libro il Rap criminale e molto altro

Nonostante ci siano passaggi attuali ed intensi, capaci di solleticare chi legge, così come aspetti intimi e sinceri, tratti molto acerbi si intrecciano in tutto questo, proprio perché gli autori erano molto giovani quando si misero a scrivere. È tenero e tragicomico il motivo per cui questo libro è scritto a due mani. Per questo il libro è attraversato da:

«un senso di tensione e di brulichio, non a caso urbano, come una folle palazzina piena di paragrafi incazzati e battibeccanti che vogliono tutti dare battaglia al padrone di casa» (p. 22).

Oltre a ciò,  il racconto s’incaglia su aspetti molto accademici che lo rendono a  tratti pesante e non sempre facilmente comprensibile ad un prima lettura; quindi, se lo volete capire in profondità, due letture sono altamente consigliate: se vi piace, anche tre. In aggiunta, il libro si apre a digressioni che non sempre portano da qualche parte, un po’ quando come entri in metro per andare in un posto e poi non vai da nessuna parte, o dimentichi la tua fermata.  

Ad un certo punto non solo si incaglia: rallenta, fino a fermarsi. L’andare coraggioso e appassionato lascia il posto ad un posato taglio giornalistico: più lucido e asettico, ma meno travagliato e stimolante. Ci siamo sul mood?

A parte ciò, s’intravede il piglio particolare di quello che sarebbe diventato un grande, complesso e compianto esponente della letteratura americana. Conoscete Infinite Jest e Questa è l’acqua?

Un messaggio d’amore (o quasi) al rap

signifying rappers il rap spiegato ai bianchi

Oltre ad essere due amici legatissimi, chi scrive sono due persone – potremmo dire – innamorate dello stesso genere di musica e nello stesso momento: luglio 1989, anno in cui finalmente era riuscito ad arrivare nel mainstream. 

Però, se d’innamoramento si tratta, è quello che si sperimenta agli inizi. Capite? Nonostante l’ambizioso titolo dell’edizione americana de Il rap spiegato ai bianchi, ovvero Signifying Rappers: Rap and Race in the Urban Present (1990) di critico, quindi, ha ben poco. Assomiglia piuttosto a una lettera d’amore: mossa da spirito di sicuro appassionato, che prende delle cantonate, si perde in dettagli simpatici, usa paroloni sentiti in qualche corso universitario di stampo progressista, per fare colpo e ti guarda ammiccante dicendo: “mi hai capita vero? La pensiamo alla stessa maniera, giusto?”.

Pertanto, se state cercando uno o più approfondimenti critici stimolanti, vi rimando ad esempio ai diversi  libri di U.net e al raffinato e schietto Cesare Alemanni in Rap. Una storia, due Americhe, (Minimum fax, 2019).

Leggi anche:  Rap: la storia di due Americhe spiegata da Cesare Alemanni

In Il rap spiegato ai bianchi, Wallace e Costello procedono, quindi, un po’ infatuati, ingenui e ingordi: anelano a conoscere appieno quel modo di essere che tanto li affascina e che un po’ li terrorizza e non li accoglie benissimo: anzi, proprio non li vede (p. 100). Si ritrovano così come quando Guè in Se tu fossi me, dice: «E noi siamo vicini, ma distanti scianti».

Distanti, ma da cosa? Dalla realtà raccontata in rima nelle varie strofe. Ossia dalla realtà quotidiana, personale, socio-culturale, economica e giuridica che molti afroamericani vivono, oppure si trovano costretti a vivere e a cercare di sopravvivere a loro malgrado. Ascoltare il rap, quindi, anche, è un tentativo più o meno consapevole di approssimarsi alla “linea del colore”, per citare Du Bois.  Non ha solo un elemento voyeuristico da parte di chi ascolta, soprattutto se bianco, come diceva Wallace, nel passo citato.

Gli stessi autori desiderano avvicinarsi. Così scendono e “s’ infiltrano”, mossi da interesse genuino e curiosità matura per le strade di Roxbury. Girovagando, quando ancora si poteva; quando i social non filtravano, ingigantivano, nascondevano, limitavano e impedivano il fare esperienza e l’entrare in contatto con il margine al centro delle metropoli (p.68).

il rap spiegato ai bianchi

Entrare nel margine al centro delle metropoli, con una canzone, è necessario per capire che ci sono cose che a noi non toccheranno mai. Questo essere privilegiati/ate non è una colpa: è un fatto. Ecco che la vicinanza si mescola con alcune parti, molto dirette, violente, ripugnanti e crude, che non sono pensate per un pubblico bianco, comunque sia privilegiato. Sono appoggiate su di una base campionata, piuttosto, per dare voce ad una comunità oppressa, ridotta ad oggetto per secoli, con la schiavitù e il colonialismo: ossia gli afroamericani.

Il rap è quindi anche una finestra, spesso il cui vetro è «difettoso e pieno di bolle» (p. 201). Molte volte, quando ascoltiamo una canzone rap con poca attenzione e spirito critico, si vede solo quello che è  immediato e diretto. Occorre fare un passo in più: decidere di abbandonare il punto da cui osserviamo e inoltre decidere di incontrare chi vive al di là di quella finestra. Potrebbe nascere un incontro felice e fortunato. Magari ne saremmo un po’ turbati/ te e l’inquietudine ci disturberebbe un poco. Ecco, però, che quell’incontro avrebbe la potenzialità di traghettarci verso una maggiore comprensione della condizione in cui si trova una persona molto distante da te, da noi. Avremmo avuto una piccola, ma preziosa epifania dell’ordinario, come sosteneva James Joyce: il vero senso delle cose e della situazione si sarebbe aperto davanti a noi.

«Il mondo dipinto dal rap è piccolo, cattivo e brutto esattamente perché il mondo di cui si canta è anche quello per cui si canta… E il mondo metropolitano degli anni Ottanta per cui si canta è una lacuna nel testo dell’America, piena di problemi, a corto di risorse, crivellata dalla droga e dalla criminalità, una lacuna rispetto a cui i pezzi rap più oppressivi sono soltanto un’errata corrige. È un posto volgare: la gente dice “figlio di puttana” e “ciucciacazzi” in luogo di “ bello mio” e  “vecchio mio”.» (p. 207)

Il rap, un invito a mescolarsi

Il rap è anche un invito. Come diceva il duetto di Chuck D e Flavor Flav Stop the violence, antigang del 1989, “vi spingiamo a mescolarvi”.

Leggi anche:  Il potenziale della marginalità: lo scenario Urban di Stand 4 What, il nuovo libro di u.net

È un invito a uscire dalle proprie certezze, dalle proprie categorie abituali, da “pensieri dentro scatole ordinate” e da “preconcetti in buste preconfezionate” (Dentro me, J-ax, Meglio prima? – 2011). È andare oltre la nostra finestra più o meno rotta, vecchia, oppure scintillante. È sbirciare dentro un’altra finestra particolare.

Il rap è un racconto che permette infatti di sbirciare dentro storie che non ci appartengono, oppure dà una finestra su chi siamo e su chi apparteniamo: alle volte è un: “apparteniamo, punto. Non sta a te mettere il becco su quel che dico, capito?”

È quindi un’escursione: come dei visitatori. Solo che a volte, la nostra passione è così forte, grande e autentica che lo dimentichiamo. A tal proposito, però, Marracash ci è d’aiuto quando dice in Appartengo, con Massimo Pericolo, nel suo geniale album Persona:

«Pensi che ci sei dentro, ma sei un visitatore».

È una frase che sento molto mia: tutte le volte, che scrivo e approfondisco questo verso – sì, perché il rap è poesia, non dimenticatelo mai –fluisce e sbatte contro i miei scogli interiori. Mi permette di posizionarmi rispetto sia a quel che ascolto, sia a quel che approfondisco e tratto. Oltre a questo mi mostra una prospettiva genuina con cui sviluppare i miei ragionamenti e le suggestioni che voglio offrire a chi mi leggerà…

Divagavo: torniamo alle storie raccontate nel rap. Grazie a queste, se da una parte possono farci sentire parte di qualcosa, ci consentono anche di chiudere la forbice delle distanze socio-culturali, personali ed economiche che ci separano dalle altre persone e rimpolpare l’empatia sociale che tanto manca in questa società veloce e “coronizzata” dalla pandemia globale. Per quale minuto possiamo avvicinarci a mondi e a vissuti quotidiani lontani, oppure – se la cosa ci riguarda – siamo più vicine e vicini a noi.

E se il racconto non vi piace o vi crea fastidio, rabbia e indignazione tanto da voler fare una petizione, affinché quella canzone di quell’artista venga bandita dal mondo virtuale, o televisivo: be’: sappiate che quel rap sta raccontando qualcosa della vostra società. Forse non è il rap, e gli artisti rapper a non piacervi: ma la vostra fottutissima società!

Ti potrebbe interessare
Approfondimento

Sandman racconta nel suo libro il Rap criminale e molto altro

Approfondimento

"Il cuore più buio" di Nelson George: il racconto delle tenebre d’America

Recensione

Lecrae, Non mi vergogno: la nascita di un cristiano raccontata in rima

Recensione

Rap: la storia di due Americhe spiegata da Cesare Alemanni

Iscriviti alla nostra Newsletter