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Approfondimento

Da gang a flexare: le parole del rap ci raccontano chi siamo

FSK gang

In un recente articolo, vi avevamo parlato del significato dello slang nel rap italiano. Oggi proviamo invece a chiederci come mai la scena nostrana abbia inconsciamente adottato determinati termini piuttosto che altri.
Sarebbe veramente interessante poter affrontare questo argomento con un linguista, ma, in questo caso, ci limiteremo ad un’analisi più superficiale, partendo dalla semplice osservazione e dalle minime basi che lo studio e qualche ricerca ci hanno fornito.

Sappiamo, prima di tutto, che il linguaggio serve ad un gruppo sociale per poter comunicare le proprie esigenze. Il fatto che esista una parola va quindi a significare che ve ne è la necessità, che il gruppo dimostra l’esigenza di esprimere, in particolare, quel determinato concetto. Allo stesso tempo, il fatto che un termine non esista lascia intuire che il concetto al quale la parola dovrebbe riferirsi, nella pratica, non abbia rilevanza. Attraverso il linguaggio, sarebbe perciò possibile analizzare i valori di fondo ed il modo di vivere di una sottocultura. 4L, Bando, Bibbi, Bufu, Eskere, Ollare, Fareshi, Flexare, Snitch, riocontra: riprendendo dallo slang già ampiamente spiegato, e aggiungendo alcuni termini del linguaggio comune particolarmente utilizzati, non è quindi difficile ricavare qualche informazione sulla cultura rap italiana attuale.

Gang e Bando: il valore della famiglia e del riscatto sociale

Ritroviamo qui il tema centrale del ghetto – per nulla sorprendente considerando le origini dell’hip hop e della trap in America -, ma anche della comunità intesa come famiglia, che si oppone all’estraneo in una dinamica da branco. A partire da ollare (whole lotta gang shit), passando per tutti i possibili sinonimi utilizzati per indicare i ‘fratelli’ (broski, fra, sgrang…), il rap è pregno di un senso di unione e di famiglia, per il quale la propria compagnia diventa un punto di riferimento, in opposizione agli snitch e ai bufu (termine ormai vintage, oserei dire).

La ricerca di un senso di appartenenza per distinguersi dall’altro pare essere anche alla base della nascita del riocontra (dal francese verlan) nel secondo dopoguerra. Invertire le lettere di una parola, con la conseguente creazione di un linguaggio proprio, pare contribuisse ad alimentare il senso di comunità dei ragazzi dell’epoca.

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Il termine gang, invece, deriva probabilmente dal linguaggio nautico del ‘600 ed indicava una ‘compagnia di lavoratori’. Nel tempo, ha assunto poi il significato generico di ‘uomini che viaggiano insieme’. A fine ‘700, il vocabolo veniva utilizzato per indicare gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni, sfociando infine, nell’800, in un dispregiativo ‘gruppo di criminali’.
Non stupisce quindi l’utilizzo del termine gang nel rap d’oltreoceano, né la tendenza a dividere il proprio gruppo dall’esterno – essendo peraltro la realtà americana caratterizzata da profonde disparità sociali e da gang come Bloods e Crips -. Qui in Italia, i riferimenti a questo ‘altro’ contrapposto appaiono nella maggior parte dei casi anonimi o senza un contesto di massa. Rimane comunque palese come il sistema di valori della cultura rap italiana abbia ampiamente ereditato quel senso di rispetto per la ‘famiglia’, anche solo intesa come compagnia di amici.

Gli Snitch e la sfiducia nelle istituzioni

Traendo origine dalla condizione dei neri in America e dal razzismo sistematico, la cultura hip hop porta con sé un’ovvia condanna per gli abusi delle istituzioni, additando come snitch chiunque decida di collaborare con esse. Esempio principe degli ultimi anni è stato sicuramente il caso 6ix9ine.
In Italia, la scena ha spesso riportato questo spirito nelle questioni nostrane. Esempio principale ne sono i brani riguardanti il caso Cucchi, o i molti che prendono una posizione contro gli arresti dei ragazzi per spaccio. Non a caso, i ragazzi che si approcciano al rap e alla cultura nel quale si inserisce provengono da contesti sociali nei quali non è difficile aver avuto incontri e/o scontri con l’autorità pubblica e con le istituzioni.

Partire dai testi che descrivono senza mezzi termini queste realtà potrebbe forse essere d’aiuto per comprenderne gli effettivi disagi e necessità.

“Non ci metti al sicuro, ci metti dentro”

Eskere, Flexare e la scalata verso il successo

Una volta, almeno in parte e soprattutto nella scena bolognese, la sfiducia nelle istituzioni veniva accompagnata da una volontà di cambiamento sociale. Ne vediamo un esempio linguistico con l’utilizzo, verso gli anni ’90, del termine posse dallo stesso verbo latino posse, cioè potere -, rappresentante gruppi che affrontavano tematiche sociali e politiche. Oggi sembra, invece, che la scena rap veda come parte del suo sistema valoriale la scalata verso il vertice della società del capitale. Pensando a quanto espressioni come Eskere e Flexare siano entrate nel parlato quotidiano degli ascoltatori, appare palese come la cultura si sia spostata dalla ribellione alla conferma dello status quo.

tony effe flexare

Non un “abbattiamo il sistema”, ma un “arriviamo più in alto possibile ed alimentiamolo”. Lo stesso abbondare di termini per indicare il proprio gruppo stretto di amici denota una mentalità individualista, che cerca la salvezza per sé e per la propria gente, piuttosto che per l’intera popolazione o per un cambiamento globale. La maggior parte dei rapper chiarisce tale esaltazione del consumismo affermando che, essendo partiti dal basso, oggi vogliano mostrare i frutti del loro impegno. In questo modo, però, non fanno che confermare una visione capitalistica e consumistica del successo, dove chi parte da zero, una volta raggiunta la cima della piramide, si comporta come i suoi predecessori, al posto di invertire la rotta per far sì che la disparità tra le classi sociali vada a diminuire globalmente, e non solo per il singolo.

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“Son partito dalla piazza con il culo sopra un bus, ora puoi trovarmi primo nelle tendenze YouTube”
“Quando c’è la torta tutti ne vogliono una fetta, quindi mangio di fretta”

Troie e infami

Infine, gli stereotipi di genere: perché se l’uomo è infame, la donna è troia.
Infame deriva dal latino infamis, ovvero privo di fama in modo generico, senza alcuna connotazione legata alla sfera sessuale. Il termine troia si riferisce invece alla femmina del maiale esclusivamente destinata alla riproduzione. Probabilmente per la connotazione negativa dell’animale, oggi indica una donna sporca e immorale a causa della sua attività sessuale. Per “sporca e immorale” si intende ovviamente “che fa sesso esattamente come farebbe un uomo”.
È ormai banale sottolineare come l’equivalente maschile non esista, visto che fin dall’Impero Romano, stando in Italia, il tema del sesso e del tradimento veniva affrontato con una maggiore libertà per l’uomo.

A stranire non è comunque l’inesistenza della controparte o l’utilizzo della parola in sé, quanto la costante moralizzazione e colpevolizzazione dell’atto sessuale della donna nella scena rap. Personalmente, continuo a non spiegarmi come sia possibile che dei ragazzi di vent’anni nel 2020, in Italia, vedano il sesso come qualcosa da colpevolizzare, anche se solo per un genere.
Ancora più insensata è la risposta fornita in molti casi. I rapper argomentano di non voler censurare i testi o cadere nel ‘buonismo’, quando è proprio il trattare il piacere femminile come un taboo, o comunque diversamente da quello maschile, ad essere buonista e legato, peraltro, al peggiore dei tradizionalismi.
Assurda è anche la percezione del sesso come una conquista, piuttosto che come un atto normalissimo e basato sul consenso.

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Immaginiamo per un attimo la scena nel concreto: lui che mette in rima le sue gesta sul rullante della 808 al grido di “mi scopo questa troia”, mentre lei lo guarda, pensando a quanto non sia successo assolutamente nulla di spettacolare, a come il sesso sia letteralmente la ragione dell’esistenza umana e non un avvenimento unico e sensazionale, del quale vantarsi con il mondo manco fosse chissà quale impresa.
Veramente, anche vostra nonna scopa e non penso sia un trapper.

In conclusione

Da una prima analisi del linguaggio maggiormente utilizzato (sicuramente da approfondire), il sistema di valori del rap mainstream italiano, nel 2020, sembra quindi caratterizzato da: fascino del ghetto, lealtà per i propri fratelli e la propria famiglia, scontro nei confronti dell’‘altro’, senso di sfiducia e critica per le istituzioni, riscatto sociale, esaltazione del sistema capitalistico e del consumismo, colpevolizzazione e moralizzazione dell’attività sessuale della donna.

Rimane palese l’influenza dell’America e della sua cultura, che spesso viene reinterpretata in chiave nostrana, mentre in alcuni casi è ripresa senza contesto e senza alcuna analisi, come vediamo nel recente frequente utilizzo della N world da parte di rapper bianchi, apparentemente ignari del significato simbolico che questa ha per la comunità black d’oltreoceano.
Speriamo quindi di aver fornito alcuni spunti interessanti, in attesa dei prossimi aggiornamenti.

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