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Approfondimento

Lo scontro fra Guè Pequeno e Ghali ci dice qualcosa del rap italiano

guè pequeno ghali

La pubblicazione dell’ultimo album di Guè Pequeno, Mr. Fini (clicca qui per la nostra recensione), è stata accompagnata dalle polemiche che hanno seguito le dichiarazioni rilasciate da Guè in alcune interviste. Una di queste ha riguardato Ghali, accusato dal rapper milanese, in una prima intervista, di essere un “fake” e, in un’altra successiva, di non risultare credibile perché “va in giro vestito da confetto”. La questione, a nostro avviso, solleva diversi spunti di riflessione che trascendono le due parti in causa per allargarsi a tutto il rap game italiano e la mentalità che lo circonda. Ve ne proponiamo alcuni in questo articolo.

Le interviste di Guè Pequeno e la risposta di Ghali

Lo scontro ha avuto origine da un’intervista di Guè, rilasciata al Corriere della Sera, in cui definisce Ghali un “fake” che non potrà mai essere “un idolo del mondo di colore” perché “appartiene all’universo fashion”. Ghali risponde con un post su Instagram in cui annuncia il disco di platino di DNA:

Che palle non sarò mai “l’idolo del mondo di colore”

L’album DNA è platino

Platino… quello vero, non fake.

Guè Pequeno ritorna, poi, sulla questione in un’intervista per Rolling Stone:

Il mio giudizio su Ghali era riferito a questo: un artista che va in giro vestito da confetto può andare bene per una sfilata ma non ha grande credibilità di strada. Cioè non è Stormzy: il tipo in Inghilterra non va in giro vestito da ananas. Io non sono razzista né omofobo ma vedere un rapper che va in giro vestito da donna con la borsetta mi fa ridere, che poi almeno fosse gay. Boh, sono robe assurde.

L’abbigliamento nel rap

Le parole di Guè Pequeno fanno intendere che ci sarebbe un certo dress code da rispettare per risultare credibile, nel rap come nel mondo di colore. Il che sembra un po’ anacronistico all’interno di una scena internazionale in cui i rapper lanciano linee di abbigliamento di ogni genere.

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Kanye West ha presentato la collezione autunnale della sua linea ready-to-wear (alla Fashion Week di Parigi, ndr) che poco ha a che fare con l’abbigliamento normalmente collegato col mondo Hip hop. Pharrell Williams, col suo brand BBC (Billionaire Boys Club), vende delle borghesissime polo a righe per più di 100 euro, non esattamente il massimo dello streetwear. A quanto pare, al giorno d’oggi vi possono essere idoli Hip hop (e del “mondo di colore”) che appartengono anche all’universo fashion.

kanye west sfilata
Yeezy Season 8 Collection-Fonte: Vogue

Né tantomeno all’estero vengono sollevate polemiche se artisti del calibro di Tyler, The creator, Lil Nas X o Young Thug (solo alcuni dei tanti possibili esempi) si presentano in copertine di dischi, live o red carpet con parrucche e vestiti dalle forme e colori più disparati.

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Tyler, The Creator

“Vabbè ma che c’entra…quella è l’America, qua stiamo in Italia!” si potrebbe ribattere. Ma anche in Italia rivendicare l’esistenza di regole non scritte per il vestiario risulta paradossale dal momento che la maggior parte dei rapper della scena fanno a gara a sfoggiare gli outfit più sgargianti e provocatori. La Dark Polo Gang, la FSK, Achille Lauro sono alcuni esempi di questa gara di stravaganza. Lo stesso Sfera Ebbasta, da sempre pupillo di Guè, nella copertina del suo successo Rockstar si mostra con una discutibile pelliccia rosa, che potrebbe meritargli il medesimo appellativo di “confetto” riservato a Ghali.

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Sfera Ebbasta nella cover di Popstar Edition

Uno scontro generazionale fra due rapper

Un’altra chiave di lettura della questione può essere individuata nel fatto che i due appartengono a generazioni di rapper differenti.

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Guè Pequeno viene dal rap anni ’90. Il mondo Hip hop di quegli anni fondava la sua cultura su concetti come la street credibility e sul fatto che esistevano determinate regole di stile da rispettare per essere definiti “realmente” rap.

Ghali, invece, è nato e cresciuto in una scena differente, in cui non è più necessario crearsi una credibilità di strada per emergere nel rap game. Grazie alle moderne piattaforme web e alla dimensione mainstream raggiunta dal genere, un giovane artista ha la possibilità di passare dalla sua cameretta ai primi posti delle classifiche musicali con un click, senza dover passare attraverso il cursus honorum (dalla strada, ai locali sperduti di periferia, fino ai grandi palazzetti) che invece hanno vissuto i rapper delle precedenti generazioni.  

Questa evoluzione del rap ha portato anche a canoni completamente diversi nel genere, soprattutto rispetto a quelli che potevano essere gli standard presi come riferimento fino a qualche anno fa. Le sonorità, l’atteggiamento, le tematiche dei testi, lo stesso vestiario: tutto, ormai, risponde a gusti (e a un pubblico) del tutto differenti se confrontati con la cultura Hip hop di 10, 20 o addirittura 30 anni fa.

Tuttavia, questo scontro generazionale non sembra adatto ad un personaggio come Guè, il quale non può certamente essere accusato di non essere aperto verso le nuove tendenze: il penultimo album Sinatra è un lavoro che tenta di giocare con le sonorità che stanno colorando il genere negli ultimi anni; a livello di collaborazioni, il rapper milanese non si è mai sottratto a lavorare con rapper delle nuove generazioni (anche con lo stesso Ghali, nel pezzo Maria dei Troupe D’Elite), né sono mancati negli ultimi anni gli apprezzamenti verso alcuni dei suoi colleghi più giovani.

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Guè Pequeno Mr. Fini

Qualche spunto di riflessione

Alla luce di tutto ciò, non ce la sentiamo di definire le uscite di Guè Pequeno come razziste o omofobe. Queste dichiarazioni, più che mostrare un atteggiamento retrogrado da parte di Guè, potrebbero rivelare degli attriti personali fra i due rapper.

O ancora, tutta la questione potrebbe essere solamente la tipica trovata per sollevare un polverone e attirare l’attenzione sulla nuova uscita di turno (in questo caso Mr. Fini). Anche perché la prima dichiarazione fatta da Guè in merito, rileggendo l’articolo del Corriere, sembra del tutto fuori contesto, sia per il tono dell’intervista, sia per l’approccio generalista con cui si stava affrontando la questione del razzismo in Italia (che contrasta con l’attacco diretto rivolto nei confronti di Ghali). Insomma, sembra davvero una frase buttata lì proprio per fare scalpore.

Al di là delle ragioni che hanno portato a questo scontro, la questione ci fa chiedere se, ancora oggi, esistono delle regole di abbigliamento da seguire per non sembrare ridicolo agli occhi degli altri, specialmente per artisti che fanno un genere che da sempre si pone come un elemento di rottura con il way of life socialmente accettato.

Optando, invece, per un punto di vista più interno alla musica rap, potremmo domandarci se nel 2020 bisogna ancora mostrarsi thug per essere considerati credibili all’interno del rap game o se il genere è diventato così popolare (pop nel senso più puro del termine) che determinati tabù sono ormai definitivamente caduti.

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