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Intervista

Dr. Wesh ci parla dei suoi Pazienti: l’intervista

dr.wesh, pazienti

Dr. Wesh ha da poco pubblicato il suo primo album solista per la label La Grande Onda (clicca per leggere la nostra recensione). Il lavoro è a suo modo un unicum all’interno della scena per il modo in cui il beatmaker si è approcciato ad un prodotto complesso quale è il producer album. Il disco è zeppo di idee e spunti su cui poter riflettere. Per questo abbiamo deciso di fare due chiacchiere con Wesh e farci spiegare meglio quali erano le sue intenzioni dietro a un progetto che è di certo ambizioso: se non per le aspettative di vendite (come vedrete più avanti), ma quanto meno a livello di complessità nel maneggiare tanti stili e artisti differenti.

Hai realizzato un disco che tratta di temi forti, come la depressione o le malattie mentali. Quanto è autobiografico il tuo lavoro, e come mai hai voluto approfondire proprio queste tematiche?

Ho scelto di fare questo album per due motivi. Il primo è che io odio conformarmi. Odio questa idea del dover essere uguale a tutti. Pertanto battere la classica strada dei soliti produttori che aspettano anni per raccogliere dei big della scena da mettere nel loro disco non mi interessava. So che nel mercato si fa così, ma chi se ne frega. Ho già un disco d’oro appeso in studio… e sinceramente mi sono reso conto che appenderne altri 100 mi appaga meno di suonare la mia musica, anche se sono 100 persone.

Ho scelto di battere una strada buia, che nessun produttore sano di mente farebbe, e fare qualcosa che arrivi al cuore delle persone. Preferisco fare qualcosa di buono per la gente, invece che per Spotify e per le classifiche. Le piattaforme durano 10 anni, un disco che ti ha toccato rimane per la vita.

E arriviamo al secondo motivo. Ho voluto approfondire queste tematiche perché io penso che la musica non si fermi solo alla parte puramente creativa o compositiva. La musica diventa affascinante quando c’è una storia dietro. La storia è talmente potente che la gente che non conosce la Nona sa che fu scritta da Beethoven mentre era sordo.

Io voglio raccontare la mia storia perché ho sconfitto un momento buio, e posso aiutare gli altri a non stare male. E poi può rispecchiare la storia di tante persone che soffrono. Se il progetto aiuta anche una sola persona, allora non è un lavoro inutile. Sono stato autobiografico al 100% per le parti in cui io presto la voce, quindi gli skit e la traccia finale.

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Penso che sia molto più bello esprimere ciò che si prova dentro, rispetto a mostrare una vita bellissima ma non autentica, e ho fatto in modo che ogni “paziente/artista” venisse associato ad una malattia per coerenza artistica, ma anche per esorcizzare questa idea e far capire che dietro un rapper o un artista c’è una mente con dei dubbi che spesso è più fragile di quello che uno pensa.

dr. wesh

Il concept dell’album è strutturato come una serie tv. Quali sono le ispirazioni cinematografiche o televisive da cui hai preso spunto?

In realtà non ho preso spunto da una serie precisa. Forse la trama è un po’ simile a Shutter Island (spoiler alert: alla fine il matto è il protagonista)… ma non sono stati i film ad ispirarmi. Anche se ho lavorato a delle colonne sonore per film quindi non è che partissi proprio da zero.

L’idea mi è venuta ripensando agli album che mi piacevano di più. Alla fine i miei dischi preferiti erano strutturati come dei viaggi. Da The Wall dei Pink Floyd ad American Idiot dei Green Day, da MBDTF e Yeezus di Kanye West ad Astroworld di Travis Scott, da Controcultura di Fabri Fibra a Hellvisback di Salmo.

Per me l’album ha senso solo se è un viaggio, sennò faccio dei singoli. Non voglio fare il disco che consiste nella “hit di punta” in mezzo a dieci tentativi di rifare quel singolo. Credo che tutti gli album che farò saranno sempre storie, o comunque saranno strutturati in modo da dare complessivamente un’esperienza più stimolante rispetto al sentire la traccia singola, debbano essere un viaggio.

 In Ozymandias-Manie in una barra dite di “non trovare uno stile” e di “non sapere dove andare”. È un problema che il Wesh artista avverte realmente? Magari dovuto ai tanti input della discografia attuale?

Innanzitutto è Ozymandias a dire quella barra (io canto solo nell’ultima traccia che è Dr. Wesh – Finale), quindi il verbo “dite” è un po’ improprio. Però posso dirti che l’ha scritta davanti a me in studio, in una giornata in cui guardandosi attorno vedeva tanta musica orribile riscuotere successo, e quindi ha voluto scrivere una riflessione su questo.

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Non avverto un problema di “non sapere dove andare”. Io so dove voglio andare, e so anche dove non voglio andare. Ho voluto fare un lavoro per far intrippare le persone. Non voglio fare un album per sbancare, altrimenti avrei mandato beats per anni a tutta la scena, e prima o poi a forza di provarci avrei tirato su “il disco con la scena italiana”, magari col pezzo reggaeton per farsi due soldi, e tutto il carrozzone che ne seguiva.

Ma la discografia attuale è così in crisi che è meglio non ascoltare gli input ed è meglio starne fuori, per concepire musica è importante isolarsi e capire cosa hai dentro. Poi se uno vuole trovare somiglianze le trova su tutto, basti pensare che l’hip hop nasce dal sampling, che è proprio un “reinventare cose di altri”… alla fine conta quello che trasmetti e come lo trasmetti.

Posso tranquillamente nel bene o nel male che un lavoro così non l’ho mai sentito in Italia, e so di aver fatto qualcosa di differente. Quando è uscito il disco, sono stato sommerso di messaggi di persone che mi dicevano “non ho mai sentito una cosa del genere, è stato un viaggio”. Magari piacerà solo a pochi, ma va bene così. Meglio pochi che sanno apprezzare che tanta gente che ti dimentica.

 Il disco è musicalmente molto variegato, dalla trap, all’indie, al rap più classico, probabilmente anche per adattare lo stile dell’album ai vari interpreti dei pezzi. Con quale criterio hai scelto i tuoi ospiti?

Ho voluto fare un album variegato perché volevo un viaggio che fosse funzionale e non annoiasse. Non mi piacciono gli album a mattone tutti uguali.

Per la scelta degli ospiti ho voluto collaborare con artisti che conoscevo e che registravano già con me nel mio studio (Qwagur Studio), non curandomi tanto dei follower, ma del rapporto umano e professionale. Tutti gli artisti mi chiamano realmente “doc” quando ci vediamo per fare musica. Sono tutti miei pazienti. Quando ho proposto a ogni artista l’idea dell’album, è stato naturale, perché alla fine stavo facendo una foto della realtà di tutti i giorni.

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Non so se si è capito, ma il lavoro non è una metafora o un’analogia. È solo un modo romanzato di raccontare la verità. Ma è tutto vero, io sono Dr. Wesh e loro sono pazienti!

Sempre riguardo le tante influenze a livello di suono, raccontaci un po’: quali sono i tuoi artisti di riferimento? (Io direi che fra questi ci sono di sicuro Kanye West e Travis Scott…)

Io sono cresciuto ascoltando death metal, elettronica e hiphop. Quindi passo dai Cannibal Corpse a Skrillex, dai Daft Punk a Fabri Fibra, da Kanye West ai BMTH, dai Justice ai Green Day, da Travis Scott a DJ Snake.

Ovviamente questo disco è più urban, quindi ho messo un po’ di richiami di ciò che mi piaceva ma non ho voluto fare un ibrido. Nella traccia con Akes c’è un po’ di Mike Dean e di Juice Wrld. In 94Heavy c’è Eminem che entra con un mitragliatore al concerto di Calcutta e fa saltare in aria il palco. Nel pezzo con Shangai Blood e Andre Faida c’è Skrillex che incontra Travis Scott. Nell’ultima traccia c’è Tyler The Creator che va dallo psicologo e diventa Kanye West. Ma alla fine sono solo attori che fanno parte di un quadro più grande.

Se vuoi inquadrare l’ottica del disco, ti dico che è stato tutto interamente lavorato “all’americana” quindi entravamo in studio senza testi e senza beats, e uscivamo col pezzo scritto e finito direttamente dopo qualche ora. Non ci ho lavorato mesi sopra. I pezzi sono stati tutti concepiti al volo. E incredibilmente non è stato nemmeno difficile collegare i pezzi tra loro… si sono uniti da soli!

Quali sono i tuoi prossimi step? Porterai live l’album, appena sarà possibile?

Con il Covid è un po’ bloccato tutto, ma l’idea è quella. Vorrei fare un live particolare, magari in un teatro o in una situazione che ha una scenografia.

Però posso dirti cosa farò fra 8 mesi. Raccoglierò i videoclip, girerò alcune scene mancanti, e alla fine uscirà un film di tutto il disco. Ok, si dovrebbe chiamare mediometraggio, ma comunque è una cosa che mi fa impazzire. La vedranno in pochi, ma chi se ne frega! Pensa a Van Gogh che vendette un solo quadro in vita ma non ha mai smesso di dipingere!

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