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Intervista

Dietro le quinte di “Tupac. Storia di un ribelle” con l’autore Andrea Di Quarto

tupac shakur

Dopo aver letto l’appassionata, scorrevole ed enigmatica biografia Tupac. Storia di un ribelle ricostruita dal giornalista Andrea Di Quarto e pubblicata da Tsunami Edizioni, abbiamo voluto approfondire il lavoro di ricerca dell’autore alla base di questo volume, ovvero capire il perché era importante scrivere una simile biografia e tante altre domande che ci siamo posti nel corso della lettura.

Per concludere in bellezza questo caotico 2020 abbiamo quindi deciso di porre direttamente le nostre domande allo stesso Andrea Di Quarto, discutendo con lui della genesi di questo libro (recuperate anche gli altri titoli della sua bibliografia!), e se avete ancora qualche regalo da fare, questo potrebbe essere uno spunto in più per entrare in libreria e comprare il volume ad un amico o un’amica appassionati dell’argomento…

tupac storia di un ribelle

Ciao Andrea, è un piacere conoscerti e ospitarti fra le pagine de lacasadelrap.com. Sei un giornalista professionista con una carriera lunghissima e una grande passione per l’hip-hop. Per chi non ti conosce, raccontaci un po’ di te in queste righe: cosa ti ha spinto ad occuparti di musica e a scrivere dei libri anche sulla storia del rap?

Sono appassionato di musica da sempre, anche se il mio lavoro mi ha portato a occuparmi di molte altre cose, dalla cronaca, allo sport, allo spettacolo in generale. Sono cresciuto nelle radio private palermitane – ai miei tempi non c’erano ancora i network nazionali – ed è da lì che sono arrivato poi al giornalismo. Essendo nato prima dell’hip hop ho ascoltato, e ascolto, anche altri generi, da tutta la musica black (la base per capire ogni cosa), agli Ac/Dc, di cui ero un grande fan da ragazzino, Tom Waits, Lou Reed o i Rem che, grazie al mio lavoro, ho poi avuto la fortuna di incontrare varie volte e di intervistare.

L’hip hop, però, è stato qualcosa d’istintivo, anche perché, quando nel 1979 arrivò Rapper’s Delight, non sapevamo neppure che fosse rap, non esisteva la parola, non esisteva il genere, per noi era qualcosa tra il funky e la disco, ma assolutamente prorompente. Da allora ho seguito tutto quello che potevo, senza internet non era facile come adesso, e quando nel 1990 sono arrivato a Milano, assunto in un settimanale che aveva sede a pochi metri dal mitico “Muretto”, sono rimasto folgorato: uscivo dal giornale e vedevo questi ragazzini coi boombox che facevano breakdance e li guardavo per ore.
L’idea di scrivere dei libri sull’hip hop, invece, è maturata recentemente, sei anni fa, quando ho visto che il rap è diventato una musica di massa, ma la gran parte dei ragazzi non ne sa nulla, spesso gli stessi rapper. Credo che sia fondamentale conoscere la storia delle cose per capirle e apprezzarle meglio, per avere dei termini di paragone ed evitare gente che scopiazza il già fatto e il già visto.

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Andrea Di Quarto con Grandmaster Caz (The Cold Crush Brothers), autore di Rapper’s Delight

Perché hai deciso di scrivere una biografia proprio su Tupac Shakur?

Perché nessuno meglio di lui incarna l’essenza dell’hip hop, le sue meraviglie e le sue contraddizioni. Impegnato e futile, poetico e crudo, emancipato e maschilista, rivoluzionario e conformista. E poi la sua stessa vita, gloriosa e tragica, è un romanzo: nessun sceneggiatore avrebbe potuto scriverla meglio.

Tupac. Storia di un Ribelle ha un appassionante e ricco taglio giornalistico e documentaristico. Quali sono state le fonti alle quali hai attinto per sviluppare queste interessanti pagine? Quanto tempo ci hai messo per ricercare le diverse fonti?

Le fonti state innumerevoli. Tutti gli articoli giornalistici e le interviste che hanno accompagnato la carriera di Tupac negli anni, soprattutto quando non era ancora famoso, o quelli dei giornali locali, per esempio quelli di Baltimora, grazie ai quali ho potuto rintracciare la bibliotecaria, alcuni insegnanti o gli ex compagni di scuola. E ancora i documenti ufficiali: pagelle, registri del carcere, contratti, rapporti di polizia, cartelle stampa della casa discografica ecc. E poi i libri scritti prima, tutti americani naturalmente, per evitare di fare cose simili o di perpetuare errori altrui e, naturalmente, le interviste di prima mano: lì ho avuto il problema che molti protagonisti sono morti o in galera, ma con un po’ di fortuna ho scovato altri, come i primi produttori o gli amici di Marin City. A parte il capitolo “italiano”, però, non volevo che fosse un libro di interviste. Ho usato la maggior parte delle conversazioni proprio come fonte. In tutto ci ho lavorato due anni e mezzo.

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La classe di Tupac alle scuole medie

Cosa ti ha appassionato maggiormente nel lavoro di ricerca e di scrittura dietro queste dense, lucide, critiche 320 pagine?

È esattamente il piacere della ricerca in sé. Leggere le carte di un processo, per esempio, è sempre affascinante: per i protagonisti si tratta “solo” di risolvere un grosso problema personale, non sanno che nello stesso tempo stanno scrivendo pagine storiche. Pensa al processo a Homer Plessy, o quello alle Black Panthers di New York, il più lungo processo politico nella storia degli Strati Uniti. Ma anche andare a rovistare nei vecchi numeri di The Source o di Billboard è emozionante. Raccontare le giornate italiane, poi, è stato molto bello, anche se tanti particolari erano così piccanti che ho deciso di ometterli.

tupac

Il libro è arricchito anche da diverse immagini su situazioni più o meno conosciute della vita di Tupac Shakur: quale tipo di ricerca hai fatto per reperirle?

il problema non è tanto trovare le immagini, Tupac amava farsi fotografare, quanto avere il diritto di pubblicarle: alcuni di quei fotografi sono diventati famosissimi e chiedono cifre improponibili per un piccolo editore indipendente come Tsunami (e non solo). Ho dovuto quindi lavorare d’ingegno, ad esempio setacciando i social delle persone che avevano a che fare con Tupac, o di fan, che possedevano foto private, procurandomi tutte le cartelle stampa dei dischi e dei film, o addirittura spulciando i siti immobiliari, dove ho trovato le immagini sia della villa di Los Angeles, sia della catapecchia di Baltimora.

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tupac casa di baltimora
La casa di Tupac a Baltimora

Se ti chiedessero di scrivere una biografia su un rapper italiano, chi sceglieresti e perché?

Senza alcun dubbio Fabri Fibra. Perché lo stimo molto come artista, ha una carriera lunga, che abbraccia praticamente tutti i momenti storici del rap italiano, ha una storia personale/familiare complessa e anche conflittuale, a giudicare da quello che ha scritto della madre e di quello che abbiamo visto nei rapporti con il fratello. È rispettato dalla Scena, ma non amato da tutti, insomma è tutto tranne che piatto o banale. Anche la storia del Colle è affascinante, ma lì credo che ci penseranno loro stessi, prima o poi. Uno come Danno, che mi ha onorato della prefazione, non ha bisogno di biografi.

Quali altri progetti hai all’orizzonte?

Tanti. Ma tra i miei tempi e quelli di pubblicazione non so se ce la farò. Sto lavorando su qualcosa che riguarda i Public Enemy, che in Italia godono di un affetto veramente illimitato, ma ho buttato giù anche qualche riga sul rap femminile, che è nato ben prima di Nicki Minaj e Cardi B. E poi ho il sogno di scrivere un libro sul rap latino. I “brown” sono stati in pista fin dal giorno uno dell’hip hop, su tutte le quattro discipline, e sarebbe bello, prima o poi, dare loro dei riconoscimenti.

Da professionista ed esperto del settore, quale consiglio daresti a chi vuole avvicinarsi al mondo della scrittura musicale e, in un futuro, scrivere libri sull’argomento proprio come hai fatto tu?

Studiare molto, perché quando racconti la musica non parli solo di musica, ma di scenari storici, politici, sociali, etnici. Scrivere con passione, ma mai da fan, perché altrimenti vengono fuori solo delle agiografie: anche i migliori hanno fatto dei dischi meno riusciti o sbagliato delle mosse. Ma soprattutto scrivere il libro che avreste voluto trovare negli scaffali delle librerie: altrimenti lo hanno già scritto.

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