
Mace è uno dei pochi artisti ad aver vissuto tutta l’epopea del rap in Italia. Pubblicando L’alba con Jack the Smoker nel 2003 ha incastonato nel tempo una piccola gemma che, a distanza di un ventennio, è considerato uno dei dischi migliori di questo genere. Ma ne ha anche vissuto l’esplosione sino al dominio attuale delle classifiche, cosa impensabile fino a pochi anni fa, non limitandosi però ad incatenarsi a questo universo, bensì continuando a sperimentare, variare, scoprire ciò che lo circondava. Da questa esigenza è nato RESET!, il collettivo che gli ha permesso di girare il mondo e di creare eventi da migliaia di persone al mese, coi DJ più famosi che mettevano le sue tracce. A vent’anni non sapeva se mollare l’università per la musica sarebbe stata la scelta migliore, eppure il tempo e la sua storia ci suggeriscono che, in fondo, è andata bene così.

OBE – Out of Body Experience viene pubblicato oggi per Island Records/Universal Music Italia ed è l’ennesimo capitolo riuscito dei producer album italiani. Out of body perché Mace ci ha raccontato di aver vissuto in prima persona un’esperienza extracorporea, da piccolo, durante un’operazione. Da quel momento in poi ha applicato quella sensazione alla sua creatività, guardando le cose sempre dall’esterno, lontano da ciò a cui è abituato. Questo lo ha aiutato a diventare un producer con una visione differente, circondandosi di punti di vista che, andando avanti, diventano sempre più ricchi e complessi.
C’è da dire, inoltre, che grazie a Mace e ad altri fenomenali produttori dietro importanti album, la figura del producer in Italia ha subito un importante upgrade, anche se non ancora al livello degli americani (basti pensare al recente Savage Mode II di Metro Boomin e 21 Savage). È vero, nel nostro paese chi ascolta musica è più distratto e c’è un’attenzione – se escludiamo quella per l’artista principale – inferiore che altrove, e Mace lo sa. Nonostante questo, essere dietro le quinte per lui significa anche avere molta più libertà creativa, permettendogli di stare sempre un passo avanti.
Con la nostra chiacchierata entriamo nel vivo di OBE, un progetto costellato di innumerevoli collaborazioni (premi play qui sotto e gustale tutte) e tutte made in Italy. Perché dopo gli altrettanto innumerevoli viaggi in giro per il mondo, Mace è tornato a casa e così, anche la sua musica.
Una particolarità del disco è il simbolismo che lo accompagna, uno per ogni traccia. Cosa significano e come li hai scelti?
Alcuni sono simboli alchemici, altri caratteri tibetani, altri semplicemente simboli che, per associazioni di immagini, sentivo che mi rappresentavano quello che la traccia mi comunicava. È stata una scelta molto istintiva, ho sempre creduto molto nel potere dei simboli, più che delle parole. A volte vedere un concetto condensato in un simbolo è più diretto che leggerlo in una parola. Escludendo il simbolo di Mercurio (che alchemicamente rappresenta una rinascita) che è più noto, ho scelto simboli meno conosciuti, meno immediati. Volevo fare questo esperimento: se le persone, ascoltando la traccia e vedendo il simbolo, percepiranno la stessa sensazione che ho sentito io.
Sono tanti gli ospiti che hai scelto, spaziando tra tanti generi musicali. Certi “accoppiamenti” sono stati schematici o più istintivi? Mi riferisco soprattutto ad Ayahuasca, con Colapesce e Chiello.
Di quella sono particolarmente felice! In realtà sono pochi quelli che già non conoscessi bene, lavorando tanti anni da produttore e con le persone più disparate ho incontrato di tutto, quindi ho chiamato gli artisti che mi piacevano. Il criterio era: ”Chi è, degli artisti con cui lavoro, che vorrei sentire in questa parte di percorso?”.
È stato tutto poco ragionato e tutto molto istintivo, così come la scelta di questi accoppiamenti. Molti mi han fatto notare che sono assurdi, ma per me non è così, forse non lo sono. Se mi è venuto in mente di chiamare Guè Pequeno con Venerus è perché io ci trovavo dei punti di contatto, come Chiello e Colapesce su quella traccia avrebbero potuto parlare la stessa lingua. Sicuramente aiuta conoscere molto bene gli artisti: metà della mia giornata lavorativa è dedicata a parlare con gli artisti ed entrare nel loro mondo. Conosco un sacco di sfaccettature delle persone che un esterno non conosce, mi viene in mente che posso associare quella persona con quell’altra perché in realtà i punti di contatto ci sono, ma voi non li vedete.
È stato tutto poco ragionato e molto istintivo: finisco il pezzo con gli FSK, ci vorrebbe una voce quasi rock, lontana dalla trap, per il ritornello, che uscisse dalla palette. Chiamai Irama, con cui stavo già lavorando, e lui ne fu subito entusiasta. Tutti gli accostamenti nascono da un’immagine: Colpa tua l’ho iniziato con Venerus ma cercavo qualcuno che calzasse per tipo di argomento, di liricismo, di beat: io ci vedevo Guè, ed infatti era perfetto!
Manca qualcuno che avresti effettivamente voluto?
Sì, mancano tre, quattro nomi che, principalmente per motivi di tempo e di impegni, non siamo riusciti a concretizzare. Sono comunque molto soddisfatto: ci sono persone che avrei voluto ma, anche se non ci sono, va bene così. Loro lo sanno, ma ci sarà sicuramente un’altra occasione!
A proposito di ciò Salmo, pochi giorni fa, ha dichiarato che la scena italiana manca di originalità. Sei d’accordo?
Sono d’accordissimo. In Italia c’è poca ricerca, quasi tutto è molto derivativo. È un cruccio che ci portiamo avanti da tanto, escludendo la classica musica leggera italiana, quella che ho sempre odiato da ragazzino, molto romantica, melodica ed inoffensiva. Sanremo è molto originale e nostra, è stata fonte di ispirazione in Francia e nell’Est Europa in passato, però sicuramente stiamo parlando di altri tempi.
La musica moderna, il pop, l’urban, è tutta molto derivativa: le cose nuove sembra che succedano sempre fuori e noi magari diventiamo sempre più bravi ad ispirarci tanto. Ma difficilmente si sentono cose realmente nuove. Salmo lo ha detto perché è sempre stato uno in grado di mescolare linguaggi diversi, estetiche diverse e nonostante le sue fonti di ispirazione siano abbastanza chiare, ne ha dato una forma molto originale. Così come Blanco: non mi viene in mente un artista con la melodicità molto italiana d’altri tempi con quella grinta e quel tipo di voce. E ti cito anche un artista con cui non ho mai lavorato, che è Tha Supreme: obiettivamente si sente il mondo da cui arriva, ma è riuscito a creare qualcosa di nuovo che prima non c’era.
Essendo tu una persona che viaggia moltissimo, come hai vissuto quest’ultimo, limitante anno?
Mi è mancato da morire viaggiare. Ho avuto la fortuna di essermi goduto questo piacere fino all’ultimo: a gennaio ero in Mozambico con Gemitaiz e Manuel Marini dove abbiamo realizzato un documentario ed un EP, nonostante fosse partita come una vacanza! Poi a febbraio sono stato in Marocco con Venerus, ad ultimare alcune tracce del suo disco. Quest’anno mi è mancato tantissimo viaggiare, ma non me lo sono vissuto così male, ho avuto un sacco di tempo per me stesso, per pensare, per pensare a quello che volevo fare, a che cosa fosse davvero importante per me. Forse un po’ annoiato… Oltre che di viaggiare ho bisogno di conoscere un sacco di gente nuova, pure se sono a Milano io esco ed incontro persone.

Una delle tue prime foto su Instagram ritrae uno scorcio di Shangai, una delle ultime in Mozambico nell’esperienza con Davide e Manuel Marini: qual è il viaggio che ti torna in mente se chiudi gli occhi? E quale sarà il prossimo?
Il prossimo, se potessi scegliere, tornerei in Africa. Ho già fatto tutta la parte est, dall’Etiopia fino al Sudafrica, mi piacerebbe andare un po’ ad ovest. Il primo viaggio che mi viene in mente… Non te lo so dire, sono stati talmente tanti e diversi che non saprei. Ma l’Africa in generale, l’Uganda, il Mozambico, l’Etiopia sono dei posti scolpiti indelebilmente nella memoria. Anche Tokyo, dove sono stato cinque volte, è la mia città preferita al mondo: sono immaginari talmente diversi che forse, il primo che mi viene in mente, dipende a ciò a cui sto pensando in quel momento.
Bianco/Gospel è un’esperienza di vita prima che di lavoro. Cosa c’è dietro e, tramite il documentario che uscirà prossimamente, cosa vorrete trasmettere al pubblico?
Il Mozambico è un posto meraviglioso dal punto di vista naturalistico, ma anche umano. La nostra era partita come una vacanza ma, la prima sera che siamo usciti siamo stati ad un concerto di musicisti tradizionali, rimanendo sorpresi dalla loro bravura, tanto da voler prendere contatto con qualcuno di loro avessimo voluto fare qualcosa. Eravamo a Maputo, una città molto viva anche di notte, infatti nel locale dove siamo andati dopo abbiamo conosciuto casualmente (ma non credo esista il caso in queste situazioni), tramite uno scambio di sguardi, noi tre e questi due ragazzi, uno designer e l’altro producer video. Come se fosse fatto apposta, dovevamo fare musica, un video!
Durante il viaggio ce ne sono successe di tutti i colori, ma abbiamo cercato di condensare il tutto in quel doppio singolo. Abbiamo cercato di raccontare in maniera più sincera e naturale alcune fasi del nostro viaggio, personalmente mi piacerebbe far aprire gli occhi su una realtà che poca gente conosce e ci sono tanti stereotipi legati all’Africa che non si conoscono. È un posto magnifico, la gente lo è e spero anche si accenda la scintilla e la curiosità nei giovani di viaggiare. Io ho iniziato a vent’anni andando in Messico, spero si possa percepire che andarsene così lontani, uscendo dalla propria bolla, ti fa vivere delle esperienze meravigliose che non avevi mai potuto pianificare. Per me sarebbe molto bello questo.