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Approfondimento

“A mio agio nel caos, ecco la mia Exuvia”: il rito di passaggio di Caparezza

Exuvia

In un’epoca musicalmente dominata da un rap sotto il cui fumo non cuoce alcun arrosto, Michele Salvemini, alias Caparezza, è un’eccezione felice: fatta di arguzia, ironia e autoironia, coraggio e istruzione. In una parola sola, cultura, quella che più traspare, nonostante la distanza virtuale, quando Michele ci racconta Exuvia, ottavo disco in studio di una carriera iniziata oltre vent’anni fa dentro un garage, pubblicato oggi, venerdì 7 maggio per Polydor/Universal Music.
Attenzione però a collocarlo nella schiera degli artisti colti:

La parola cultura spaventa la gente, mentre io voglio essere amico delle persone. Chiamatemi dunque curioso, perché realmente mi incuriosisco ai riferimenti che cito; non faccio mai citazionismo spicciolo, ma cerco di inserire quello che mi serve, quando serve e con uno scopo ben preciso.

Per accorciare la distanza dovuta alle condizioni pandemiche che stiamo vivendo, ma soprattutto per approfondire il processo creativo che ha portato alla nascita del disco, è stata pensata una foresta virtuale, un luogo senza tempo per scoprire il mondo di Exuvia.
L’exuvia è il termine che descrive, in biologia, la vecchia pelle dell’insetto dopo la muta: l’esoscheletro che gli insetti, prima di entrare in una nuova fase, si lasciano alle spalle per “rinascere” attraverso la metamorfosi, una testimonianza quasi scultorea del proprio passato. L’exuvia di Michele Salvemini è invece una celebrazione del rito di passaggio, in grado di rappresentare il disagio per l’abbandono di una fase e, al tempo stesso, l’eccitazione per la conquista di un’altra.

Si tratta di un concept album, come lo sono tutti gli altri, ma forse questo è il più cinematografico di tutti, grazie sopratutto alla sua collocazione spaziale.

Caparezza è il fuggiasco che è venuto fuori dalla prigione mentale in cui era rinchiuso in Prisoner 709 e si trova davanti ad una foresta. La foresta che da sempre è foriera di suggestioni, un luogo dove perdersi e ritrovarsi, dove si celano meraviglie e angosce; insomma una puntualissima metafora della vita. E allora, benvenuti nel favoloso e anarchico universo di Michele Salvemini, una sorta di dadaista rap, artista quarantasettenne con alle spalle una carriera artistica composta da una valanga di parole srotolate in rima alternata, baciata, interna, con assonanze, in versi sparsi.
Godetevi il viaggio.

Partiamo da un presupposto: ogni brano potrebbe essere un album a sé. C’è però un libro che potrebbe fungere da spirito guida dell’intero disco: “Il viaggio di G. Mastorna”, sceneggiatura di un film che Fellini non ha mai realizzato. Il protagonista, che non capisce di essere morto o quantomeno non lo accetta, si trova in un aldilà in cui regna disordine e confusione, in cui la gente parla un linguaggio incomprensibile e si comporta in modo grottesco.
“Mi sono innamorato di Fellini nell’età giusta per comprenderlo” ci rivela Michele, imbattendosi prima nel film 8 e 1/2 e accostandosi al suo protagonista Guido Anselmi, regista quarantenne, svogliato, cullato dai suoi tormenti interiori e alle prese con un’opera che non riesce o che non vuole concludere; successivamente scopre il libro su Giuseppe Mastorna, trovandolo ideale per inquadrare quello spaesamento che lo stesso artista vive.

Ma cos’è a confonderlo? I suoi ultimi sette dischi che improvvisamente prendono vita e gli si rivoltano contro. Van Gogh vuole sotterrarlo, Galileo lo contesta durante una premiazione, il toro questa volta adula il matador e persino Michael Jackson che lo aveva definito come un genio in ?! finisce per dargli impunemente dell’idiota. La traccia che apre Exuvia è dunque inondata dal caos, incarnato musicalmente da sonorità che ricordano i Pink Floyd e quei viaggioni che fanno tanto anni ’70, sulla cui base cade a pennello la voce di Matthew Marcantonio, leader dei Demob Happy (una delle rock band preferite di Capa) che riprende a sua volta un vecchio brano dei Droogs.

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Spaesamento, dunque, a cui l’artista tenta di sottrarsi e al quale fanno seguito due possibili soluzioni, tanto opposte quanto conseguenti nella scaletta del disco: Fugadà e El Sendero.
La prima traccia è un puro elogio della fuga, e non a caso si apre con alcuni versi di Dino Campana, il poeta fuggiasco di Marradi, un poeta che soffrì di vari problemi psicologici, tra cui rientrava la forte esigenza di spostarsi continuamente, una totale intolleranza alla sedentarietà. I suoi versi aprono la seconda traccia del disco, suggerendo all’artista di fuggire dal proprio disordine mentale e invitandolo a compiere una corsa a perdifiato (essendo appena evaso dalla propria prigione).

Improvvisamente accorre una voce femminile: Mishel Domenssain, artista messicana, secondo (ed ultimo) featuring del disco. Una voce che non invita a fuggire, ma a rimanere sul sentiero, a vivere a pieno il percorso per compiere coerentemente questo rito di passaggio. Un sentiero di cui l’artista non conosce la meta, ma decide comunque di intraprendere, questa volta senza affrettare il passo.

Tra i probabili titoli di questo album c’era “In mi selva”, che era l’anagramma di Salvemini. Sono andato a vedere tutte le canzoni che si chiamavano “La selva” per cercare campionamenti e mi sono imbattuto nella canzone di Mishel dal medesimo titolo. Ne sono rimasto subito innamorato, ci siamo messi in contatto e lei si è resa subito disponibile a rimaneggiare il pezzo sul nuovo arrangiamento, fortemente incuriosita da questa insolita connessione Molfetta – Città del Messico. Insieme abbiamo dato vita ad una delle tracce di cui più vado fiero.

Exuvia

Il disco scorre da qui spedito, affrontando tematiche complesse e richiedendo all’ascoltatore un livello di attenzione inusuale rispetto alla nostra epoca. Nello spiegare la circostanza, Caparezza riprende ancora una volta Fellini: “Volevo fare un disco allegro”. Consapevole della complessità delle tematiche trattate ed anche per andare in contrasto rispetto al precedente album totalmente in bianco e nero, l’artista tenta di alleggerire l’opera, inserendo più cantati, melodie armoniche, colori e immaginari gradevoli. Il linguaggio utilizzato ancora una volta è quello del rap, dettaglio da non tralasciare che conferma ancora una volta quanto quest’arte abbia la profondità giusta per soddisfare i requisiti di espressione a qualsiasi età ed a qualsiasi condizione.

Due i passaggi maggiormente delicati che mi sento di sottolineare.
Traccia numero cinque: Campione dei Novanta {piccola rivelazione: “il campione dell’Olanda” citato nel ritornello della traccia è Robin Van Persie (assonanza con “ma persi”)}. Il percorso artistico di Caparezza non può prescindere dal personaggio di MikiMix, alter-ego dal nomignolo un po’ fumettistico e acerbo. “Tra tutti i miei passi quello rappresentò sicuramente il mio passo falso, ma a volte il traguardo comincia con un passo falso”. È la prima volta però che Michele dedica un’intera traccia a quel periodo pop-rap, incarnato nel personaggio di MikiMix, dopo aver ammesso più volte di essersene a lungo vergognato (“se fosse andato bene sarebbe stato difficile scrollarmi di dosso quella storia”). Quale dunque miglior pretesto della tematica del rito di passaggio per affrontare l’exuvia più plateale di tutta la sua vita artistica?

È vero, mi sono spesso vergognato di questa parte del percorso. Sbagliando. Sbagliando perché è una parte fondamentale della mia crescita artistica. Ci sono voluti diversi anni affinché questo sentimento cambiasse, ed è successo una volta scavallati i quarant’anni di età: da allora è come se vivessi in un mondo nuovo, in cui non ho niente contro quel ragazzo di vent’anni che faceva canzoni pop-rap. Ad oggi ho una visione quasi paterna rispetto al il mio passato, ci ho fatto pace e preferisco pensare al presente, casomai al futuro. In sintesi credo che sia una controindicazione del crescere e del diventare adulti.

Traccia numero quattordici: Come Pripyat. Cosa ci può essere più spaesante di una selva? Una città fantasma, per esempio. Pripyat è una città costruita per ospitare i lavoratori della centrale atomica di Chernobyl; dopo l’esplosione di un reattore nel 1986 fu evacuata e da allora è una città fantasma, in preda alle radiazioni. 

Io non vivo in una città fantasma, ma la sensazione che ho è quella di parlare a vuoto come se abitassi in una di queste città. Tutto intorno a me ha subito una mutazione, la musica, la politica, la società. E se invece queste fossero semplicemente le considerazioni di una persona invecchiata, allora vuol dire che sono io quello che sta mutando.

Tante dunque le mutazioni in atto intorno al rapper di Molfetta, che vengono riportate con precisione in quella che è forse la traccia più “politica” e “vecchio stile” di Capa: il rap è diventato l’esaltazione dell’opulenza, la criminalità è diventata un’ambizione sociale, i meridionali sono diventati leghisti. È così che si consuma il passaggio da realtà ferma a realtà trasformata.

Exuvia

A proposito di vecchio stile: seguendo un po’ quel filone intrapreso a partire da Prisoner 709 trovo anche in questo disco una componente personale e intimistica molto più forte rispetto a quella critica sociale che aveva contraddistinto una buona parte dei tuoi lavori, soprattutto i primi. In Exuvia alcuni riferimenti politico-sociali sono presenti, è vero, ma in maniera molto sottile e poco evidente. Sono passati ormai quindici anni da Habemus Capa quello che definisti il tuo disco più politico, come in fondo lo era a tutti gli effetti. Pensi sia ancora possibile e utile parlare di politica e critica sociale nella musica?

Certo che è utile. Io sto facendo delle scelte ben precise, ma darei qualsiasi cosa per vedere un ragazzo di vent’anni che parla di queste tematiche. Quando io ascoltavo i 99 Posse c’era tanta musica politica, tanti gruppi che trovavano su quei palchi spesso dei centri sociali un megafono per sfogarsi. Se mi metto io ora a parlare di determinati problemi non posso sperare che un ragazzo mi stia a sentire, forse sì, ma sono anagraficamente distante; se lo fa invece un ragazzo di vent’anni che si appassiona alla politica, contrariamente ai suoi coetanei e che parla con credibilità di determinate questioni, allora sì che quello può diventare un esempio trascinante. In questo periodo tra l’altro di assoluto edonismo dove conta soltanto quanti vestiti hai addosso e il loro costo, una roba del genere sarebbe uno schiaffo totale, sarebbe la roba più concreta, vera e reale. Io vivo sperando che torni questa wave tra i ragazzi giovani, e sono pure disposto a farci un featuring!

Perdersi, sbagliare strada, tornare sui propri passi, cercare qualcuno a cui chiedere la giusta direzione per poi fare sistematicamente di testa propria: solo in mezzo a tutta questa confusione Michele riesce ad orientarsi. “Non c’è nulla che mi faccia sentire più a mio agio del caos, esattamente come niente mi irrita più del relax”. Queste poche parole credo spieghino meglio di qualsiasi stratagemma il viaggio consumato del nostro artista, il suo rito di passaggio che si conclude con la traccia che dà il nome all’intero disco: Exuvia

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Nel complesso, ci troviamo di fronte ad un album stilisticamente incredibile. Michele replica la scelta già abbracciata in Prisoner 709 di affrontare un percorso più intimo, dove lui stesso e il suo disagio sono gli assoluti protagonisti. Dalla voce di chi guarda la vita con le lenti del ragazzo all’ultimo banco, appassionato di manga e fumetti, con una visione del mondo, politica e sociale, ben definita, all’uomo che si interroga, che fa dell’arte musicale un ponte per riflettere, tracciando una linea organica, fatta legittimamente di alti e bassi, che coniuga passato, presente e un futuro tutto da decifrare. Lo fa abbandonando per l’ennesima volta la sua comfort zone, accettando di entrare in quel limbo senza scampo che ha il suo padre putativo in Fellini, e affrontando complessità evidenti:

Ho capito che il secondo album era più facile dell’ottavo

Una scelta ponderata e ben precisa, non esattamente come quella narrata nella decima traccia del disco, dall’omonimo nome, La scelta, che spezza esattamente in due l’album. Il brano era stato pubblicato come singolo per anticipare il disco ormai qualche settimana fa e sin dal momento della sua uscita ho letto fantomatiche ipotesi, dal tragico al comico, dal disilluso all’idealista riguardo al futuro prossimo di Caparezza. Nella traccia viene descritto un bivio da cui si diramano due sentieri, ciascuno custodito da un guardiano. Il primo è Beethoven, un musicista che ha composto fino alla morte nonostante sia stato continuamente bersaglio delle avversità e che ovviamente mi indica la strada della consacrazione all’arte. Di diversa opinione è l’altro guardiano, Mark Hollis dei Talk Talk, un personaggio che ha abbandonato i lustrini dello spettacolo nel pieno della sua ascesa per dedicarsi alla vita fuori dai riflettori.
L’unico modo per venire fuori da questa situazione di stallo è fare una scelta, ma siete davvero sicuri che Michele, un artista che ama spiazzare e contraddirsi continuamente (“questo fa di me una persona coerente”), la sua scelta l’abbia già fatta? 

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