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Approfondimento

Educazione e Rap: un incontro possibile

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Nei libri, le righe che leggiamo sono bivi, incroci distratti, veri e propri incontri fortunati e trasformativi. Chi legge forte lo sa bene. Ci sono libri che possono pesare sulla nostra crescita personale e sociale in modo importante. Nella mia storia personale recente, questo è rappresentato da Vivo per questo, autobiografia del rapper romano Amir Issaa pubblicata nel 2017 da Chiare Lettere. È la ragione per cui mi trovate qui a occuparmi di rap e di subcultura Hip Hop.

Oggi voglio parlarvi del secondo libro di Amir Issaa, Educazione Rap, edito da Add Editore, uscito recentemente.

Educazione e rap: un incontro possibile 

“Rap”, “educazione”; “educazione”, “rap”. Anche a cambiare l’ordine sembrerebbero due parole lontane, in contrapposizione, da non intrecciare mai. Nemmeno per scherzo, o gioco, o provocazione. Può mai il rap essere educativo? Si può fare educazione con questa “forma del degrado”? (Bazin H., in La cultura hip hop, p. 34). Immagino il sottofondo di volgarità, di violenza e di machismo scorrere lieve nella vostra mente…

La risposta che io do a queste domande è: . Il rap può essere ed è considerato come una postura artistica, non solo espressiva musicale, ma anche letteraria e poetica. Perciò può avere una funzione educativa forte, incisiva, critica e senza filtro.

Questo, infatti, non è il primo libro che racconta del rap come strumento educativo. Non è il primo libro che cerca di portare la pedagogia hip hop anche in Italia. Esiste una “letteratura Hip-Hop” ed è trasversale: va dalla storia, all’antropologia, alla musicologia, alla pedagogia, appunto. Il tema è esplorato anche in varie facoltà universitarie di lettere. Ad esempio, numerose sono le tesi sui testi di Murubutu, ormai!

educazione rap

In Educazione Rap, Amir Issaa spiega in modo diretto, schietto, piano eppure critico ed approfondito come educare sia narrare. Attraverso il rap si raccontano le difficoltà, le durezze e le brutture della vita quotidiana. Le asprezze della vita urbana non sono però espresse come forma di lamento, perlomeno non solo. Costituiscono da un lato una possibilità di dare parola a chi, occupando posizioni marginali, è messa/o a silenziatore dall’oppressione, e dall’altro costituiscono una forma di denuncia sociale e a volte politica su problemi che caratterizzano la post modernità.

In che modo, allora educare è narrare e se narrare è educare? Per chiarire, spero, riprendo un passo di Barre, libro di Kento

«Non voglio cazzate Lavoriamo con serietà, insieme» (2021, pp. 7;18;102).

Le storie che si raccontano all’interno di un laboratorio di scrittura rap, infatti, indipendentemente dal contesto in cui si svolgono, si basano su un’idea di fondo: l’essere persone autentiche (be real!). Non importa quanto brutta, sporca o enigmatica, o ermetica possa essere la storia raccontata. L’essenziale è che parli della propria vita in modo diretto e autentico. Non importa che le storie siano diverse, perché diversi sono i punti di partenza delle persone, i “luoghi della parola”.

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Questo Amir Issaa lo fa a partire dalla propria esperienza di rapper e di persona che si è trovata a vivere, fin da bambino, in una società che lo respingeva e offendeva. Ancora oggi, infatti, la società italiana in vari modi fa vivere nel disagio – a volte molto profondo – persone con origini familiari straniere, nate oppure crescite qui, per motivi diversi.

amir issaa educazione rap

Una fotografia della società italiana: dopo la pandemia

In Educazione Rap, il rapper racconta la versatilità in ambito educativo che può avere il rap lungo tutto il libro. Ad esempio, a me è piaciuto il passaggio in cui il rap viene utilizzato come strumento di alfabetizzazione di persone adulte straniere (p.169), o come strumento attraverso cui rispolverare la nostra Costituzione a scuola (p.63).

Nel raccontare questo, Amir scatta un’istantanea del nostro tempo. Per questo è un libro molto attuale. Parla di un’Italia attraversata da numerose tensioni sociali e culturali, le quali si sono aggravate con e dopo la pandemia. Non ultime quelle razziali, negate però con forza da diversi esponenti della società bianca italiana, nonché dalla politica: riflesso duro di un problema strutturale irrisolto.

Inoltre, Educazione Rap – narrando di soggettività marginalizzate e subalterne – può essere definito anche come un libro che si inserisce nel filone postcoloniale. Chi scrive è un uomo, o meglio metà rapper-metà uomo, o «una via di mezzo tra un sociologo e un rapper» (p. 53) che essendo figlio di un egiziano ed una donna bianca ha subìto sulla sua pelle il peso del razzismo sistemico. Proprio per evitare di essere scambiato per straniero, la mamma lo chiamava Massimo da bambino per proteggerlo da quel senso di estraneità ed esclusione sociale, che comunque l’avrebbe accompagnato per tanto tempo e che poi avrebbe avuto il coraggio e la forza di raccontare i suoi diverse canzoni, anni dopo. In modo diverso, sia le canzoni di Amir, sia quelle di Tommy Kuti, sia quelle di Ghali o di F.U.L.A. raccontano di una società che ti cresce e ti respinge perché sei una persona di pelle scura, oppure perché appartieni ad una fede diversa da quella cristiana, o ad una minoranza linguistica. Oppure, come dice anche Geolier in Rap tutorial (64 Bars), prod. Luchè:

  «Miezzu sce nun m copia maij l’accent
Ca p st’accent prim m schifavn» 

Queste tensioni possono e di fatto hanno profonde conseguenze sulla strutturazione di identità plurali, come quelle delle seconde generazioni, ma non solo: di tutte le minoranze.

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Potere alle parole

Il libro, come si legge fin dal titolo, ruota attorno sì all’educazione, ma anche al rap. Centrale non è solo il dare parola a chi ce l’ha attraverso il rap, ma è anche un’ appassionate analisi circa l’uso e l’abuso, a volte con risvolti violenti e mortiferi di certi termini. La scrittura è cuore di questo libro.

Educazione Rap pertanto è anche un’onesta, ricca e critica analisi delle parole usate nel rap. È interessante vedere come anche come certe consapevolezze dell’artista si siano sviluppate con il tempo e l’ascolto attento.

Solo attraverso l’ascolto di persone diverse da lui l’artista capisce, ad esempio, come non sono tanto le intenzioni, ma gli effetti di alcune parole ad essere violenti. Certe parole, oltre ad essere insulti, sono anche delle parole d’odio e discriminatorie. Vi lascio galoppare con la fantasia…

Stimolante è quindi l’analisi che il rapper romano fa del sessismo nel rap. Considerazioni sviluppate a partire da un Manifesto per l’antisessimo nel rap italiano scritto da Wissal Houbabi (2018) interessante stimolante,  non banale che non può non essere preso considerazione. 

I nostri tempi sono tempi interessanti, complessi e per molto aspetti violenti. Ci sono molti sistemi che ci limitano e ci influenzano.

amir issaa

Uno di questi è sicuramente il patriarcato e si riflette indubbiamente anche nei versi rap. Se intrecciamo questa struttura al razzismo che in vario modo pervade anche la nostra società, alla classe sociale, ecco svilupparsi una società attraversata dai un forte e profondo disagio socio culturale ed economico. Per questo il rap e la trap, così come la drill piacciono alla fasce più giovani della nostra società. Perché vi si rispecchiano a volte in modo doloroso, hanno lo stesso linguaggio, vivono certe situazioni. Alla domanda di Luchè in Non credo più dice:

«Preferisci un consiglio da un peccatore, o un professore?» 

Molte delle ragazze e dei ragazzi che ascoltano rap non avrebbero alcun dubbio, sono sicura, nel rispondere a questa domanda. Amir dice questo: «Ascoltano di più qualcuno che è già nella loro testa e nella loro playlist. Si fidano. Conoscono le sue parole, e si fidano» (p. 162). 

Il rap non è un genere che fa spensierare (P. Zukar, 2017), ma un genere esplicito a tratti crudo, eppure capace di dire o fare intuire verità scomode, come nel caso delle seconde generazioni non riconosciute dallo Stato nei loro diritti e dalla società. La canzone di Tommy Kuti è molto evocativa:

«Stavo tra due mondi come Garibaldi 
E certi giorni ero escluso da entrambi»

Rap, società e pedagogia

«Questo schifo di città è come una giungla, fra’ (Una giungla, fra’) Ci sono serpenti, volpi e leoni (Volpi e leoni)
E se serve devi essere tutti e tre (Tutti e tre) Welcome to the jungle»

DJUNGLE ft. Marracash, Taxi B & Paky

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Con le sue 221 pagine, il libro di Amir Issaa è un libro, ricco, scorrevole, non difficile, interessante, particolare e che mette in luce il razzismo sistemico e quotidiano subito dalle minoranze, il sessismo, ma anche il classismo che condiziona la nostra società. Per questo è anche un libro molto duro che mette di fronte agli occhi delle persone bianche le loro mancanze, fra bugie e colpe nel processo antirazzista italiano. Ed è un libro che mostra come l’antirazzismo non sia una lotta delle persone nere e delle minoranze contro il razzismo. È una lotta, invece, di tutte le persone a partire dalla propria posizione sociale contro un sistema di potere che offende, umilia e uccide, a partire dall’esperienza di chi queste le subisce. È un invito intimo e appassionato a fare uso della propria empatia per superare le forbici sociali e per cambiare in proprio modo di essere, di pensare, di fare o di non fare. C’è un messaggio molto radicale…

È un libro, inoltre, molto appassionato e onesto, perché è ben consapevole delle problematicità legate all’uso che si può fare nel rap delle parole. Usare la lingua è come toccare le persone. Le si può toccare profondamente e avere un’influenza positiva, così come le si può traumatizzare e privarle della loro dignità di persone. Proprio per questo ha uno sguardo critico non solo sul rap, ma sulle dinamiche della nostra società: una lettura valida e stimolante. È un libro inoltre plurale perché hanno partecipato alla stesura personalità molto diverse tra di loro, e tra le varie pagine si sente il dialogo costante che l’autore ha avuto con persone tra loro molto lontane. Questo ne fa una pubblicazione molto ricca e avvincente. 

Per tutto questo, è un libro necessario, a tratti scomodo, vero, particolare da leggere proprio perché un esempio di pedagogia hip- hop, che non può che essere “pedagogia dell’oppresso”, quindi una pedagogia critica, orientata allo smantellamento dei vari sistemi oppressivi, ossia abolizionista e quindi intersezionale. Una pedagogia utopica, radicata nel qui e ora, ma che guarda a futuri possibili diversi e più paritari.

Bene, mi fermo qui, anche se sono potrei continuare! 

Concludo dicendo: se il rap è un territorio subculturale musicale, adesso abbiamo un punto in più di riferimento sulla mappa. Va ad aggiungersi ad altri, mettendo un po’ di ordine in questo caleidoscopico territorio subculturale italiano…

«Mi aggrappo alla mia scrittura l’unica liana, sì, in questa giungla » F.U.L.A. in Tutti colori, ft. Mama Marjas

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