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Intervista

Travel Experiment: in viaggio con gli Smania Uagliuns

smania uagliuns

Travel Experiment è un progetto atipico, così come atipici sono gli Smania Uagliuns all’interno della scena rap italiana. Il progetto ha avuto un gestazione lunghissima: la prima tappa del viaggio, Marsiglia, risale al 2016. Poi si sono aggiunte Kenya, Bucarest e infine Berlino. Ma cos’è esattamente questo esperimento? È un viaggio in 4 tappe in cui gli artisti lucani si sono lasciati influenzare dai suoni e dalla società dei posti visitati.

Abbiamo avuto modo di fare una chiacchierata con gli Smania Uagliuns in cui abbiamo approfondito il concept dell’EP e i vari temi sociali trattati all’interno di esso. Il consiglio è sempre lo stesso: mettere in play l’EP durante la lettura dell’intervista!

In un’intervista che vi ho fatto nel 2015 mi avevate già anticipato che eravate al lavoro su questo progetto. In questi 6 anni quante cose sono cambiate e quante sono rimaste uguali?

Interessante, non lo ricordavamo, avevamo avuto solo un lampo magari. Sono cambiate tante cose  nel gruppo, intorno a noi, in noi. Il mercato si è trasformato molto, abbiamo ricevuto le nostre belle delusioni, porte in faccia, ma anche soddisfazioni. Quando vuoi giocare solo con le tue regole devi faticare il doppio. Già nel 2017 avevamo un disco quasi pronto, ma abbiamo avuto problemi tecnico-legali e abbiamo dovuto riaprirlo e trasformarlo. Le nostre vite come individui sono andate in direzioni differenti, intanto Agronomist ha intrapreso la sua carriera da solista di pari passo. Ma ora siamo felici, a prescindere, di aver riacceso i motori con questo EP, dei live e i semi piantati per ciò che verrà. Perché la cosa che è rimasta immutata è la passione con cui viviamo la musica.

Le tappe che avete scelto per il vostro Travel Experiment sono state: Bucarest, Berlino, Kenya e Marsiglia. In base a cosa avete scelto le destinazioni?

Molto onestamente, la prima, Marsiglia, con leggerezza e senza sovrastrutture. Cercando sul sito Ryanair i voli che costassero poco in località un po’ fuori dai radar turistici e più “underground”, posti “croccanti” per intenderci. Da lì è nato tutto e mentre realizzavamo il brano di Marsiglia abbiamo capito che il progetto ci piaceva e ci divertiva molto. Appurato poi che veniva anche apprezzato molto, proprio perché differente dai dischi e dalla loro complessità e lungaggini, abbiamo proseguito verso mete “off-the radar”, poco battute e che rientrassero in una nostra estetica e che avessero uno spessore e una storia anche inedita da raccontare, come appunto Bucarest. Il Kenya è venuto in maniera spontanea durante un viaggio, non scelto appositamente per il progetto. Berlino idem, sebbene meno strambo delle mete precedenti, è stato scelto in quanto culturalmente, musicalmente e come mood e storia aveva tutto un mondo dietro, poi arricchito dal sottotesto del “viaggiare senza muoversi” sopraggiunto post-pandemia. 

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Durante questi viaggi avete avuto modo di vedere quanto diverse siano queste realtà rispetto alla realtà del nostro Paese. C’è qualcosa che vi ha colpito al tal punto da cambiarvi? Sia musicalmente che caratterialmente.

Realtà totalmente differenti dalla nostra, assolutamente. Questa cosa è fondamentale in generale per comporre e dire cose nuove, scoprire e riscoprirsi differenti ti permette di dire e dare qualcosa di nuovo. Marsiglia ci ha uniti molto, abbiamo trascorso dei giorni molto belli e sereni, anche lontani dall’ansia e dalle paranoie del mercato, delle uscite discografiche e delle pressioni che sentivamo. Il Kenya ci ha aperto un mondo su uno scenario opposto a quello occidentale che viviamo quotidianamente. Questi viaggi non possono non cambiarti. Capisci che devi pensare anche al prossimo, che per stare bene, bisogna star bene tutti. Anche Bucharest ci ha totalmente stregati con il suo mood a metà strada fra crisi e voglia di rinascere, tra decadenza e spinta in avanti, tra locali che spingono hip hop e palazzi crollati a fianco. Berlino è una miniera di arte e cultura e la mecca dell’elettronica, della club culture, ci ha dunque dato tutta una serie di input che ci hanno portato a produrre una strumentale così dark, wave, elettronica. Noi poi adoriamo questo sound, è parte integrante di noi, che siamo per metà black, per metà super europei. Tutte scoperte poi coadiuvate dai gioielli che trovavamo nei negozi di dischi o rubando frammenti di umanità registrandola in giro e campionandola, hanno dato vita ai mondi di ogni episodio.

L’ultimo viaggio lo avete fatto durante una pandemia globale. Com’è stato viaggiare con le varie imposizione dei diversi Stati?

In pandemia abbiamo solo completato parti di registrazioni di un viaggio avvenuto nel 2018, perciò abbiamo voluto aggiungere il concept del “Travel without moving” proprio a sottolineare come, anche con le restrizioni e i limiti della pandemia, si poteva viaggiare tramite la musica, le immagini, l’arte. A proposito di imposizioni e problemi affini, nel 2020 saremmo dovuti partire per gli USA, per realizzare un “Travel” tutto speciale, poi saltato per i motivi che tutti sanno, ma speriamo sia solo rimandato.

Nel brano che avete fatto a Bucarest parlate, in chiave ironica, dell’immigrazione. Qual è il messaggio che volete dare a chi ascolta la vostra musica rispetto questo tema?

Sebbene possa apparire che siamo poco “politici” o “impegnati” noi scriviamo di temi sovente spessi e poco leggeri. Come dici appunto tu, l’immigrazione, l’accettazione dell’altro, la diseguaglianza e l’empatia. Tendiamo a trattare questi temi con la nostra cifra stilistica, l’ironia ,e anche il capovolgimento dei paradigmi. In Alo Bucharest ci siamo immaginati una situazione paradossale in cui noi italiani emigravamo in Romania a cercar fortuna e i rumeni invece vivevano nel fasto, con “dischi d’oro e denti d’oro” facendo i nuovi briatori. Per quanto questo approccio sia anche difficile e meno diretto, è stato molto apprezzato, anche in Romania, dove il brano è diventato virale. Ad esempio su Vice Romania gli hanno dedicato un editoriale molto esaustivo e positivo in cui dicevano che il governo dovrebbe prendere esempio da noi per promuovere il turismo e il territorio, perché avevamo descritto in maniera arguta lo scenario del loro paese. I valori che vogliamo trasmettere e ciò su cui vogliamo far riflettere sono la messa in discussione di sistemi di pensiero statici o vecchi, la scoperta, il melting pot culturale e umano, l’inclusività, l’avvicinarsi ai propri vicini di stato (o di posto nella metro), l’apertura mentale e di barriere, nell’arte, come nella vita.

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Un altro tema fondamentale, durante il viaggio in Kenya, è quello del cambiamento della società Africana. Pensate che, a livello antropologico, il capitalismo e l’avvicinamento alla cultura occidentale sia un male?

Probabilmente sì, o almeno questa è stata la percezione avuta durante il viaggio. C’è un distacco ed uno scollamento totale tra i villaggi di tribù Maasai, ormai ridotti a simulacri da mostrare ai turisti, e la cementificazione di metropoli quali Nairobi, che tendono ad accentrare ed attirare i più giovani in cerca di fortuna e di cambiamento. Se da un lato il progresso in sé, e la voglia di cambiamento, non sono concetti negativi, nella specifica realtà kenyota questo sembra aver assunto i contorni di uno snaturamento della cultura e del territorio, in quanto non va a valorizzarne ricchezza e peculiarità ma piuttosto ad estirparla e soppiantarla con l’uniformazione allo standard occidentale. La savana è stata ridotta ad un mega parco giochi per turisti, che si divertono ad avvistare ora questa, ora quell’altra specie animale, pericolosi felini ormai totalmente inermi ed abituati alla presenza costante dell’uomo, plastica ovunque, grossi cantieri di ditte asiatiche che costruiscono grandi infrastrutture sottraendo spazio alla savana ed alla sua ricca fauna, e si potrebbe andare avanti per ore. Per citare il brano “… e questa povertà che forse è solo un illusione perché frutto di bisogni figli dell’evoluzione della specie umana, lastrichiamo di piastrelle la savana, copriamo il cielo stellato di smog profumato, cingiamo in un recinto gli animali del creato. Colmiamo questa fame di tecnologia e progresso, e pole pole distruggiamo l’universo… “

Nel futuro avete in mente di organizzare altri viaggi con l’intento di ampliare questo progetto?

Dopo questo EP e le attività correlate, dovremo concentrarci su altri progetti, ma abbiamo il “Travel Experiment” nel cuore e abbiamo aggiunto la didascalia “Season One” proprio perché vorremmo continuare a portare avanti questo b-side project. Abbiamo anzi già del materiale in cantiere e nuove idee su mete e musiche. Speriamo in una stagione 2. 

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Voi avete sempre giocato in un campionato a parte, mixando diversi generi. Avete già pensato che direzione avrà il vostro prossimo progetto musicale?

Sì, nel bene e nel male un altro campionato. Per noi è stata una necessità e una cosa naturale essere solo noi stessi e inventarci un sound, una scena a parte, ma ciò ci ha aggiunto difficoltà in più. La scena hip hop italiana spesso non ci ha capiti, ci ha snobbati perché “non vero hip hop”. Non per fare paragoni azzardati, ma leggevo proprio ieri di Tyler, the Creator, che raccontava di come agli inizi l’hip hop lo isolasse o non lo prendesse sul serio, idem Yelawolf, ad esempio. Entrambi artisti che amiamo molto proprio perché eclettici, trasversali e innovatori, ma anche fortissimi tecnicamente. Vorremmo che anche in Italia ci fosse spazio per l’alternative music e l’alternative rap. Ad esempio stiamo finendo in molte playlist di alternative rap straniere. Perché in Italia ciò non esiste affatto? Questo ci pare assurdo. Come si fa a non capire che i contenuti ci sono e come, che le liriche ci sono, i beat anche, solo sono differenti, cercano di andare oltre, di perlustrare altri territori inediti e vergini? L’hip hop non è proprio originalità e innovazione? La cosa rivoluzionaria è proprio il poter ficcare il krautrock o i cori Masai in un beat. Per il prossimo progetto cambieremo ancora strada e sound, il che potrà depistare o far capire definitivamente che noi siamo questo, che la nostra identità sta nel cambiare, nel non fermarci, nel proporre sempre altro. Posso dire che ci sarà comunque molto hip hop nei prossimi progetti, forse anche più che in passato, è un amore… odio che non abbiamo mai perso.

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Classe '89, divoratore seriale di dischi e serie tv. Scrivo di rap per passione. Faccio l'hater per hobby.
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