
Clementino ha pubblicato a distanza di tre anni da Tarantelle il suo nuovo lavoro Black Pulcinella, per Epic Records/Sony Music Italy. Se Tarantelle raccontava il lato più umano dell’artista partenopeo – clicca qui per approfondire – Black Pulcinella fa dell’immaginario della commedia napoletana un autentico marchio di fabbrica. Quest’ultimo disco esprime tutto l’amore di Clementino per la musica e per il genere.
Black Pulcinella però rappresenta anche una grande occasione perché vede il confronto di generazioni di rapper. Perché diciamo questo? La tracklist parla piuttosto chiaro: tutti gli artisti coinvolti – appartenenti appunto alla nuova generazione – ci permettono di comprendere come il modo di raccontare alcune situazioni sia profondamente cambiato. Nonostante le diverse collaborazioni, il protagonista indiscusso di Black Pulcinella rimane l’uomo dietro la maschera. Abbiamo deciso di rivolgere all’artista originario di Nola alcune domande. Prima di procedere, però, riascoltiamo insieme Black Pulcinella.
Ciao Clementino, benvenuto su lacasadelrap.com! Ho molto apprezzato Black Pulcinella perché suona genuino: crudo, politicamente scorretto e di forte impatto. Sei soddisfatto del risultato?
Sono contento che il sound di questo disco risulti genuino: era proprio quello che volevo. Sono proprio contento: ci eravamo un po’ rotti il cazzo tutti di sentire sempre la stessa roba. Anche io mi ero stancato della mia musica: era diventata sempre lo stesso viaggio, che ruota intorno sempre alla stessa cosa. Ho detto “ora basta“, ho pensato di “dobbiamo dare le mazzate al microfono”.
Come mai ha scelto proprio la maschera di Pulcinella per rappresentare questo tuo nuovo progetto musicale?
Sicuramente la maschera di Pulcinella è la maschera della commedia dell’arte napoletana, e quindi associata a me, assume tutto un altro valore. Suonava un po’ male pensare “Black Arlecchino” – ride, ndr. Delle tante maschere, Pulcinella è proprio la maschera che incarna meglio la cultura napoletana; è chiaro che molti di noi hanno riferimenti a Pulcinella (da sempre) – da Eduardo a Totò; mi sembrava la marionetta giusta.
La parola “black” rappresenta la musica afroamericana, che è la musica con cui io sono nato. Mettendo insieme questi due nomi è uscito questo titolo che è molto figo. Era da dieci anni che volevo mettere un titolo del genere. Dieci anni fa un giornalista mi chiese “tu che genere fai clementino?” e io risposi “il Black Pulcinella! Sono l’unico esponente del Black Pulcinella”. Se ci pensi, “black” è anche una cosa horror. Pulcinella invece è comico. Unendoli esce insieme una sorta di Joker e questa cosa mi fa impazzire.

Black Pulcinella mi ha dato l’impressione di essere l’altro lato della medaglia del tuo precedente lavoro – Tarantelle. Il tuo ultimo lavoro si concludeva con un brano molto significativo, cioè Diario di bordo. Qual è l’esigenza comunicativa che ti ha spinto a realizzare questo lavoro, soprattutto considerando il tuo recente passato musicale?
Diario di Bordo è appunto un racconto preso dalla mia agenda. E anche in Black Pulcinella c’è questo: la Outro parla sempre di una cosa che cronologicamente va avanti dall’asilo fino ad oggi. Quello che ho voluto dire e mettere in primo piano è stato proprio la musica: senza troppi like, senza macchinoni, senza giri di cose inutili che non servono a niente. La musica è la cosa più importante e tutti noi lavoriamo per quella cosa e lo facciamo con la passione. Già utilizzare il termine lavorare è brutto come termine. Ci divertiamo! Questo termine è sicuranebte più adatto.
Mi sono molto divertito a fare questo album perché non avevo le manette. Tutti i ragazzi di Sony, Epic e Big Picture non mi hanno mai detto cosa fare tutto al più mi hanno potuto consigliare. Questo è un disco rap che il Clementino di 20 anni con Black Pulcinella in mano penserebbe “wow che ho combinato”. Rendo fiero il ragazzino che aveva vent’anni e faceva il rap. Ora ce ne ho 40.
Il modo di raccontare di Clementino mi ha sempre molto affascinato: attraverso il sorriso sei in grado di raccontare anche situazioni complesse. Questo tuo stile tragicomico mi ricorda quello del maestro Eduardo De Filippo..
Il paragone con il maestro è veramente una cosa eccezionale. Sai bene cosa ha fatto Eduardo cosa è per noi napoletani. Come ha portato avanti delle tragedie con il sorriso. E questa è una cosa incredibile.
Sento di dover raccontare ancora tanto di Napoli. Ogni anno ci sono cose nuove da raccontare. Napoli è stata così tanto colonizzata e ci sono talmente di quelle etnie diverse che si potrebbe parlare per secoli. Dovrò raccontare ancora tanto.

Napoli è stata sempre rappresentata come una città dalle mille sfumature e dai mille colori. Eppure, penso che ci siano ancora problematiche insolute. Pensi ci sia ancora una lato “black” di Napoli che debba essere raccontato attraverso la tua musica?
Rimane ancora tanto di “black” da raccontare di questa città: io già se esco fuori dal balcone di casa mia sono in piena “terra dei fuochi”. È chiaro che noi siamo menestrelli possiamo al massimo far capire, ma non essendo politici non possiamo fare nulla di concreto: possiamo al massimo smuovere delle coscienze. C’è ancora tanto da raccontare, d’altronde “Napoli è mille culur”.
Napoli per me rappresenta ancora casa mia, le mie radici e la tradizione. Sono andato via tante volte, ma arriva sempre quel punto che devo tornare a casa. Io prendo ispirazione anche dai vecchietti che stanno al bar a giocare a briscola, o ancora il mare. Ci sono cose in questa città che se ti fermi ad osservarle esce fuori un album. C’è molto da dire.
Parlando di ispirazioni: come è nato questo disco? Qual è stato il processo creativo?
È stata una cosa naturale: sono stato a Los Angeles e a Napoli. Ho respirato la west coast italiana e quella americana. È nato tutto così. Io scrivo tanto e poi scelgo il meglio. È chiaro che se tiri fuori cento canzoni poi tiri fuori le 10 migliori.
Se ne scrivi solo 10 è chiaro che hai tirato fuori solo il dieci per cento di te. Il fuoco del processo creativo esiste e io lo utilizzo a tutti gli effetti. Io scrivo tantissimo anche sul reggae, rap suonato alla chitarra; in questo caso abbiamo anche della roba hardcore. Ci sguazzo sulla cassa e rullante in levare. Mi piace tanto e ci ho lavorato tanto. Sono stati due anni molto difficili. Stando a casa ho avuto molto tempo per leggere e scrivere tanto.

Hai avuto modo di collaborare con molti giovani artisti. Com’è stato lavorare con loro? Quali differenze hai trovato nel tuo modo di raccontare un’emozione e quella di questi ragazzi molto più giovani di te..
Lavorare con questi ragazzi tutti giovani mi ha permesso di diventare “zio Clemente”. Il loro modo di vivere determinate cose è molto più consapevole del mio, ma anche in termini di rap sono molto più preparati.
Io a vent’anni non rappavo così: loro si vede che hanno avuto una grande scuola – da Geolier a J Lord, a Nicola Siciliano. Confrontare il vecchio e il nuovo è veramente bello ed è la ricietta vincente. Io mi sono divertito e imparo anche tanto da loro. Non si finisce mai di imparare. Più arrivano quelli nuovi più ti danno la carica di fare sempre meglio.