
Dutch Nazari ha pubblicato a distanza di tre anni da Ce lo chiede l’Europa il suo nuovo album Cori da sdraio, il 29 aprile 2022 per Undamento. Torna con un album maturo, che spazia con leggerezza e disinvoltura tra varie tematiche a lui care. Grazie agli incastri e alla ricerca sulle parole, il risultato è un rap che riesce a dialogare con delle sonorità più pop. Dutch Nazari è pronto per riprendersi ciò che era suo e conquistare nuovi appassionati di penne profonde.
Per presentare il nuovo progetto, l’artista è partito giovedì 21 aprile per una lunga camminata tra Milano e Padova. Durante questo viaggio, l’artista ha raccontato il suo nuovo disco attraverso aneddoti e informazioni inedite, dando spazio a diverse tematiche e alla parola.
Ciao Dutch Nazari, sono passati ben 3 anni da Ce lo chiede l’Europa, cosa è cambiato in questo periodo? Questa pandemia ha cambiato qualcosa nel tuo modo di scrivere o in generale nella tua musica?
Il motivo per cui ci siamo ci siamo presi un po’ di tempo è che speravamo di poter pubblicare un album da portare in tour. Venendo dal rap, anche se poi negli anni ho mescolato la mia musica con altre influenze e altri generi, per me la musica è scrivere barre ma soprattutto andare sul palco. Dal punto di vista del come fare la musica, la pandemia ha cambiato un po’ le cose. In quanto abbiamo cercato di ritrovarci nelle case a far la musica, ma quando non si poteva ci dovevamo confrontare tramite messaggi.
In questo periodo oltre alla musica hai portato avanti altri progetti, come lo spettacolo A una metrica di distanza e il nuovo podcast Cosa preferiresti, entrambi in compagnia di Alessandro Burbank. Com’è stato confrontarti con queste nuove “realtà”? Come sono nati entrambi i progetti?
A una metrica distanza è nato proprio dall’idea di fare una variante acustica del live perché i tempi non permettevano di fare altro. Con Burbank, abbiamo quindi cercato qualcosa che potesse essere adatta a quel a quel contesto lì e ci venuta l’idea di fare un reading, che fosse una disamina della scrittura, della poesia e della canzone. Abbiamo scritto lo spettacolo e lo abbiamo portato in giro, in attesa di poter fare altro. Invece il podcast è nato da un altro aspetto delle nostre vite private, cioè dal fatto che abbiamo iniziato a camminare. Abbiamo fatto molti cammini, tra cui che quello per andare a Santiago, durante il quale abbiamo conosciuto tante persone e facevamo questo gioco che aiutava a distrarsi. Mi sono reso conto che era un format per avere un primo piano iniziale della personalità di una persona. Solitamente quando fai una domanda diretta, le persone tendono a risponderti in base a come vorrebbero essere viste ai tuoi occhi; mentre se fai una domanda completamente fuori contesto, come “Preferiresti essere un chihuahua grande come una tigre o una tigre grande come un chihuahua”, il cervello non ha tempo di adattare la risposta al contesto e risulta più sincera.

Per anticipare l’uscita del tuo album hai deciso di intraprendere un cammino che ti ha portato da Brescia fino a Padova. Come mai hai scelto di intraprendere questa avventura? Chi ti segue su Instagram sa benissimo che non è la prima volta che intraprendi un viaggio a piedi. Che significato hanno avuto per te queste esperienze e cosa ti hanno lasciato?
Ho iniziato a camminare per affrontare il senso di vuoto lasciato dal primo lockdown, uscivo con le cuffie e camminavo per svariati km un po’ ovunque, per poi iniziare a fare cammini un po’ più lunghi con Burbank. Il primo è stato quando l’ho raggiunto a Pavia, mentre lui andava da Torino a Venezia a piedi, poi abbiamo deciso di fare quello di Santiago e infine La via del sale con anche Dargen D’Amico, partendo da Sanremo per arrivare a Cuneo. Con il tempo questa cosa ha preso un valore propiziatorio, perché ogni volta succedeva qualcosa di bello, come per esempio la partecipazione di Jacopo a Sanremo. Anche per questo mi piaceva l’idea di farlo per l’uscita del disco, perché oltre ad essere una cosa che mi appartiene particolarmente, mi piaceva l’idea di salutare questo nuovo capitolo facendo un cammino.
Cori da sdraio è il nome del tuo nuovo album, anticipato già dall’omonimo brano. Una scelta di parole un po’ insolita, come mai questo accostamento tra mondi così diversi? Com’è nato il nome?
Secondo me ci sono varie interpretazioni libere dietro a questo nome. Il coro da stadio è un’idea musicale molto specifica che riprende tormentoni del pop con un testo-slogan; invece, la mia musica vuole essere un po’ l’opposto di ciò, in quanto voglio portare un contenuto riflessivo. Molte canzoni che le ho scritte nel periodo la musica live era proibita, per poi consentirla da seduti, al Magnolia per esempio c’erano le sdraio. Quindi erano canzoni scritte nel periodo delle sdraio, con la speranza di poi poterne usufruire in piedi. Ma c’è stato qualcuno che mi hanno chiesto se il significato fosse un altro, mentre si scherzava su alcune canzoni di alcuni artisti, tra cui Willie Peyote, considerate delle “canzoni per scopare”. Quindi hanno pensato alla sdraio come posizione, più che alla sedia.

Tra i temi, riferimenti personali e sociali. Da cosa ti sei fatto ispirare, cosa ti ha aiuto nella stesura dei brani?
È un po’ difficile rispondere nello specifico questa domanda, perché tutto quello che leggo o ascolto può influenzare. Spesso un’idea nasce da una parola detta a caso, o da una lettura. Questo disco è il frutto di un processo selettivo particolare, in quanto in questo periodo abbiamo fatto numerose canzoni e abbiamo scelto quelle che ci sembravano stare bene insieme.
C’è un brano che ti piace o che senti particolarmente tuo?
È una bellissima domanda, perché le canzoni, secondo me, possono piacere in varie fasi, dal momento in cui la scrivi alla fase finale del tour. Ho notato questa cosa con Ce lo chiede l’Europa, in cui c’erano delle canzoni che più mi piacevano tantissimo, ma poi con l’uscita del disco e i concerti ho visto che erano altre a darmi particolare soddisfazione. Come per esempio Tutte le direzioni, mentre la scrivevo non l’avevo vista per quello che poi si è rivelata essere, cioè la hit che ha trainato il disco e che ancora adesso fa molti ascolti. In questo momento ti direi Ikea, anche se so già che non è un pezzo da live ma più da ascolto in cuffia.
Nayt, Frah Quintale e See Maw hanno preso parte al tuo disco, come sono nate queste collaborazioni e com’è stato lavorare con loro? L’album vede anche la partecipazione straordinaria di Valerio Lundini, come mai hai deciso di inserire un suo skit?
Tutte le collaborazioni sono nate in maniera diversa. Il brano con See Maw, l’avevo scritto e registrato completamente da solo, ma una volta terminato, il ritornello non sembrava rendere al 100% delle sue potenzialità. Quindi essendo un suo grande fan, ho deciso di farlo cantare a lui. Simon inizialmente non era sicuro, ma poi quando l’ha cantata, tutti erano molto soddisfatti. Quest’anno ho ascoltato tantissimo Nayt, soprattutto i suoi due ultimi album Mood e Doom che mi sono piaciuti tantissimo. Quindi gli ho chiesto se gli andasse di fare un pezzo insieme, ci siamo trovati in studio per fargli sentire il brano e lui ha scritto la strofa. Con Frah Quintale, invece, ci siamo semplicemente beccati in studio e abbiamo scritto la canzone. La partecipazione di Valerio Lundini era un desiderio che avevo da tempo. Lo seguo da prima che diventasse famoso, quando sul suo Instagram inventava dei personaggi utilizzando i filtri di Snapchat. Tra questi c’era Saverio, un personaggio che ricorda un po’ quell’amico dell’infanzia, con la mentalità un po’ confinata al paesino che si approccia in modo impacciato alla tua fama. Avrei da sempre voluto avere un suo messaggio vocale, che mi parlava dell’uscita del disco.
Le produzioni sono state curate da Peppe Petrelli, Rookley, See Maw e dal tuo braccio destro Sick. Come sono nate e come avete lavorato?
Rookley è un producer con delle intuizioni geniali sia dal punto di vista dei riff di chitarra e dei pattern di batteria, sia nel modo che ha di fare interagire scrittura delle note e pre-mix iniziale all’interno della produzione. Wairaki mi conosce da sempre e sa tradurre le mie idee in musica quando non sto riuscendo a spiegarmi con gli altri. Sicket è il capitano, quello che ha l’idea più chiara di quale sia la visione complessiva e la direzione in cui si sta andando a livello di identità ed estetica musicale del progetto. Petrelli è l’unico con una maggiore esperienza nell’industria musicale in senso ampio e ha saputo a tratti aggiustare il tiro delle produzioni a qualcosa che abbia un ruolo nel panorama musicale italiano contemporaneo.

Finalmente sono ritornati i live, ne hai qualcuno in programma? Ti senti pronto a calcare nuovamente i palchi di tutta Italia?
Se abbiamo aspettato tutto questo tempo per tirare fuori il disco è anche perché volevamo avere la possibilità di farlo seguire da un tour vero, con le persone in piedi sotto al palco a cantare le canzoni con noi, quindi la risposta è: sì, e non vedo l’ora!