Willie Peyote, al secolo Gugliemo Bruno, è quell’artista in grado di metter d’accordo i fan del rap duro e puro con i liceali punk dalla cresta verde, le coppiette innamorate, gli universitari col pullover e la camicia stropicciata e perfino qualche cinquantenne amante della canzone italiana d’autore. Torinese per nascita, torinista esistenziale per scelta, complesso e alle volte contraddittorio per predisposizione.
Pornostalgia è il titolo del suo sesto disco ufficiale, rilasciato venerdì 6 maggio per Virgin Records / Universal Music Italia: approda sulle piattaforme digitali a 3 anni di distanza dal precedente lavoro artistico Iodegradabile e ad un anno di distanza dalla partecipazione del cantautore torinese al Festival di Sanremo con MAI DIRE MAI (La locura), disco di platino e premio della Critica Mia Martini.
Dodici brani (e uno skit) manifesto di una scrittura che orbita a mezza altezza tra la strada e il bancone di un bar, consapevole e perspicace, a tratti cupa e amara, spesso citazionistica, più autocritica che mai. Willie me lo definisce come un disco “alla vecchia maniera”. Un disco rap, crudo e intimo, ironico e incazzato. Non è scontato, a maggior ragione di sti tempi, precisare il genere: dopo un’apparizione nazional popolare come quella dell’Ariston e la conseguente attenzione mediatica ricevuta, realizzare un album che non risponde ad alcuna logica di mercato, è un grande soddisfazione – per Willie, che difende a spada tratta la sua piena appartenenza alla cultura rap, ma pure per ogni amante dell’hip hop.
In due o tre passaggi dell’album posso dire di sapere dove sono collocato: però sia chiaro, è sempre tutto costellato di dubbi e insicurezze.
Ho raggiunto Guglielmo a Bologna, per l’ultima delle dieci tappe dei PEYOTeMES, il talk tour che ha organizzato assieme al suo staff per presentare il disco. L’ho fatto per parlare di Pornostalgia, del suo rapporto con l’essere artista e del posizionamento di quest’ultimo nel mercato discografico odierno, dell’auto-ironia come strumento per affrontare certe questioni spinose, spesso di matrice sociale. Ah, e ovviamente pure del Toro.
La dinamica è privilegiata: non solo perché ci troviamo davanti ad una birra e siamo seduti sul palco di un club storico per la musica italiana – cosa che entrambi gradiamo assai -, ma soprattutto perché in un contesto lontano dalle televisioni e da quelle sue dinamiche polarizzanti che rifiutano a priori i dubbi e le sfumature, e in cui Guglielmo non riesce proprio a trovare un suo posizionamento.
Io per natura ho bisogno di andare in profondità nei ragionamenti e nelle questioni. Di conseguenza, in certi contesti mi trovo molto in difficoltà: come si fa ad incasellare tutto in due macro categorie, tra l’altro in contrasto tra loro, su qualunque argomento possibile? A me piace il confronto, anche quando è scontro: è così che si originano le migliori domande per sviluppare un pensiero critico e migliorarsi.
Romperei il ghiaccio di questa chiacchiera con un paio di curiosità fuori dall’ambito musicale, ma assai attinenti alla dinamica in cui ci troviamo, ovvero davanti ad una birra: vorrei parlare di calcio. Cosa significa per te oggi tifare Torino in una città come Torino?
Tifare una squadra come il Torino è spesso un atto che si tramanda di padre in figlio e anche nel mio caso si è trattato di un retaggio familiare: è quasi impossibile che un bambino scelga di tifare Torino se non ha un membro della famiglia anch’egli tifoso – l’unica eccezione sembra essere il figlio di Bonucci, o almeno così si dice. Credo che nel tempo io abbia sviluppato un sincero senso di appartenenza verso la squadra del Toro, forse anche per la sua storia un po’ sfigata: è perfettamente coerente con la mia visione del mondo, con la mia passione per gli antieroi, per quelli nati non proprio fortunati che ogni conquista devono guadagnarsela con il sudore.
In una città come Torino poi, che da sempre è sotto la diretta emancipazione della famiglia Agnelli, della Fiat e di tutto ciò che rappresentano, tifare per la loro squadra sarebbe stato un po’ come tradire me stesso. Tifare Toro, al contrario, significa per me essere fedelmente legato alla città, in maniera quasi esistenziale.
Da tifoso quale sei, qual è il tuo giudizio sul calcio di oggi, o meglio, sul sistema calcio odierno?
Io credo che il sistema calcio odierno segua a ruota le dinamiche del nostro tempo: è un business a tutti gli effetti. Essendo inevitabilmente legato a certe logiche economiche e muovendo un quantitativo di denaro spropositato, si sta sempre più spostando verso un discorso di diritti tv, piuttosto che di partecipazione reale del tifo. Dopo questi due anni soprattutto è evidente che sta diventando sempre più importante far giocare le squadre in qualunque giorno della settimana e a qualunque orario.
Nei fatti il tifo popolare viene di conseguenza sottomesso: un lavoratore fa sempre più fatica a seguire la propria squadra del cuore se gioca il lunedì o il giovedì. Non è il certamente il calcio con cui sono cresciuto io ed è indubbiamente un po’ meno dei tifosi e un po’ più delle televisioni: il tifoso stesso è considerato un mero consumatore passivo, e questo fa venir inevitabilmente meno anche la logica un po’ poetica che ruotava attorno alla sua figura, o almeno quella logica con cui io sono cresciuto.
Però ripeto, anche nel calcio tutto va di pari passo ad altri innumerevoli aspetti della società odierna, si imitano spesso certe dinamiche che si verificano anche nelle musica ad esempio.
Ci troviamo qui oggi a Bologna per l’ultima delle dieci date dei PEYOTeMES, il talk tour che hai organizzato all’interno di alcuni club storici italiani per presentare Pornostalgia: con quale obiettivo?
L’idea con cui è nato questo tour era quella di incontrare il mio pubblico un po’ per raccontare il disco, ma soprattutto per potermi confrontare direttamente con loro. In questi due anni di pandemia a me è mancato tantissimo potermi confrontare dal vivo con la gente, vivere quella che è la componente più autentica e reale del lavoro che faccio, discutere della mia musica anche per capire se ha veramente ancora un senso.
Il tour è stato progettato prevedendo una prima parte della serata in cui interagisco direttamente con alcuni ospiti, differenti volta in volta, in base alla città in cui andavo, ed una fase successiva in cui il pubblico aveva la libertà di conversare liberamente con me, ponendomi domande sul disco ma non solo. Si tratta come dicevi anche tu di una tipologia di evento abbastanza inedito per una promozione discografica: spesso si fa qualcosa di simile con la presentazione dei libri.
Che risposta hai avuto dal pubblico?
Il tour è andato molto bene, anche oltre alle mie aspettative. Sono state dieci date che si concludono qui oggi a Bologna parecchio intense e partecipate che hanno scaturito dei confronti interessanti in tutt’Italia. Ho ricevuto buoni feedback dal pubblico anche sulla tipologia di evento in sé: questo sincero confronto mentre si sorseggiava qualcosa da bere in un clima rilassato e disteso è piaciuto molto, quindi mi auguro di poterlo riproporre in futuro.
A proposito di Bologna: tu sei parecchio legato a questa città non è vero? Oltre al sottile riferimento che fai in La colpa al vento, a quel gran bel giocatore che è stato Marco Di Vaio, bolognese per adozione, da sempre nella tua musica traspaiono diversi termini in dialetto bolognese – cinno, tra gli ultimi, proprio nella traccia appena citata -, oltre a riferimenti più o meno espliciti alla città.
Ho un rapporto molto bello con Bologna. E’ stata innanzitutto la prima città fuori Torino dove ho suonato, a gennaio 2013. Ho poi un sacco di amici su Bologna e in zone limitrofe, ci ho trascorso diversi mesi della mia vita e in generale mi sono sempre trovato molto a mio agio nel clima che si respira qui. Inoltre c’è sempre stata un’ottima risposta dal pubblico verso la mia musica e anche in questo talk tour Bologna è la data, assieme a Torino e Roma, indubbiamente più partecipata.
Pornostalgia è il titolo del disco: che genere di sentimento è la nostalgia?
In realtà io non sono una persona così nostalgica di base. Quello di cui mi sono reso conto, durante il primo loockdown in particolare, è stato che nel momento in cui si è fermato tutto e non potevamo essere bulimici nei confronti del futuro come siamo solitamente, ci siamo trovati tutti a guardare un po’ indietro, ad ascoltare vecchi dischi, a leggere vecchi libri o a riscoprire decine di vecchi film.
Questo ha scaturito in me una riflessione, che mi ha fatto intendere la nostalgia come quel sentimento in cui talvolta ci nascondiamo, che spesso ci fa stare bene, per certi versi pure ci eccita – ecco perché il collegamento al porno. Ragionando su questo ho sviluppato di fatto un disco contrapposto a Iodegradabile, che invece si incentrava sulla precarietà di tutte le cose. In un caso si ha una spasmodica fretta di vivere il futuro, nell’altro ti guardi alle spalle e questo ti piace: di fatto non si vive mai il presente a pieno.
Il disco propone un ampio catalogo di argomenti. Dalla rabbia verso il music business, alla crescita personale (anche) nella tua sfera privata, passando per il valore distorto del denaro, fino alle occasioni perse. L’alternarsi di contenuti anche così differenti manifesta una maturità non indifferente. C’è però un pilastro tematico che pensi domini sugli altri?
Ogni tematica che affronto nel disco è in un certo modo legata al mio rapporto con la musica, intesa come lavoro, come obiettivo di vita, ma soprattutto come contesto nel quale mi trovo perennemente a vivere confrontandomi con tutte le persone che ho attorno. Il rapporto con il mio lavoro, anche alla luce della mia presenza sul palco dell’Ariston nel 2021, è profondamente mutato in questi due anni, così come si è trasformata la musica in sé. Queste dinamiche mi hanno portato a sviluppare una riflessione a riguardo: di fatto, volente o nolente, sono cambiato anche io.
Pornostalgia è un disco molto personale, mi sento di dire anche piuttosto cupo, diverso probabilmente da quello che i più si aspettavano da me. Può essere considerato da molti come un disco insensato: in parte lo è nel panorama discografico odierno, se pensiamo ad esempio che non c’è un pezzo per le radio, non ci sono hit da playlist, non ci i featuring che piacciono all’algoritmo. Per riscoprire il piacere di fare questo lavoro ho dovuto però obbligatoriamente tornare al perché ho iniziato a farlo, riscoprendo quanto la mia persona è ancora oggi coerente a quell’idea: il rischio altrimenti era che diventasse solo un lavoro.
Vorrei analizzare il brano Robespierre, in collaborazione con Aimone Romizi. Credo offra un’infinità di spunti di riflessione, oltre a rappresentare uno dei capisaldi del disco. Nella prima strofa dici:
C’è chi si sente derubato / Perché mi ascolta pure la shampista / E ah, la cultura è roba di sinistra / Ma è un filo classista.
Willie Peyote (tratto da “Robespierre”, “Pornostalgia”, 2022)
Mi è apparso come un manifesto della lotta di classe al contrario. Ti chiedi qui come sia possibile un certo atteggiamento di un pubblico “di nicchia”, quasi offeso nel momento in cui il tuo successo è aumentato e conseguentemente si è verificato un generalizzarsi del tuo pubblico.
Succede spesso questa dinamica per la quale una parte di pubblico nell’ascoltare artisti meno affermati o fuori dal circuito mainstream si sente in un certo senso migliore degli altri, elevandosi al di sopra degli ascoltatori comuni proprio per questa particolarità. Questo concetto è in realtà notevolmente classista, perché alla base sottintende che tutti gli altri non abbiano i tuoi stessi mezzi intellettuali per ascoltare una certa musica o anche solo per capirla fino in fondo.
Io personalmente non ho mai ricercato quel tipo di obiettivo e non ho mai fatto queste distinzioni: se una parte di pubblico ascolta la mia musica, la apprezza, e magari la intende in un modo suo personale, anche differente dalla mia idea originale, va benissimo lo stesso.
Non mi è mai interessata l’estrazione sociale del mio pubblico. Certo, con chi mi ascolta da tanto tempo c’è un rapporto maggiormente fidelizzato, di grande rispetto e stima da parte mia, però questo non vuol dire che io concepisca la cultura – in questo caso musicale, ma non solo -, come un qualcosa esclusivamente di sinistra, come alle volte la si intende nella retorica odierna: sarebbe un escludere una grandissima fetta di popolazione, che evidentemente non ha quell’orientamento politico, ma che invece ha il medesimo diritto, e soprattutto il medesimo bisogno, di quella cultura. Se si vuole che la cultura diventi universalmente utile, quest’ultima dovrebbe rivolgersi a tutti, questo era il senso della barra.
L’hip hop è da sempre sinonimo di inclusione; negli ultimi anni però si è caratterizzato quasi unicamente come becero scontro generazionale. E’ anche vero, lo dico a malincuore, che un rilevante punto sul tema è dato dal fatto che quella musica che è stata fatta nel rap italiano in maniera politica è invecchiata abbastanza male. Alla luce di questo ti chiedo: ha ancora senso parlare di politica e critica sociale nella musica rap di oggi?
È estremamente difficile in primo luogo perché il parlare di temi sociali viene vissuto troppo spesso come un lamentarsi. A me sembra che il pubblico giovane non sia molto interessato a questo tipo di approccio, un po’ anche perché è vero che la musica politica in Italia è invecchiata male, o comunque non è stata in grado di rinnovarsi, e questo è un dato di fatto. Detto questo io cerco di dire quello che penso, non voglio lamentarmi né tantomeno insegnare a stare al mondo alla gente figuriamoci: semplicemente mi guardo intorno e racconto quello che vedo.
Detto questo ci sono poi dei temi, come appunto i diritti sociali, i diritti civili o l’emarginazione che andrebbero secondo me portati avanti come lotte univoche, perché a forza di rendere tutto personale si smette di lottare per la collettività, mentre, oggi più che mai, credo che sia l’unica dimensione cui dovremmo tenere a mente. Io stesso in prima persona mi pongo la domanda se ha ancora senso farlo.
Inoltre c’è da dire che io porto avanti un rap che ho sentito fare quando ero più giovane, da ascolti quali i 99 Posse o i Rage Against the Machine solo per citarne alcuni, che indubbiamente mi hanno influenzato: un pubblico più giovane, con altre suggestioni, ha nei fatti altri riferimenti. L’ambiente che ci circonda ci influenza notevolmente.
Per di più oggi il rap non è più un genere musicale di nicchia e rottura sociale, anzi alle volte rappresenta proprio il core business centrale dell’industria musicale.
Certamente. Uno dei motivi per cui qui in Italia il rap ha smarrito una sua componente sociale è dovuto al fatto che fosse legato quasi univocamente ai luoghi in cui veniva fatto, quasi sempre i centri sociali: uscendone ha in parte perso quella matrice.
A mio avviso l’hip hop dovrebbe avere un valore sociale inteso collettivamente, mi ripeterò ma sono convinto che non possa essere legato solo a certi ambienti: in America continua ad essere così, guarda il disco di Kendrick appena uscito, è indubbiamente politico. C’è poi da dire che fondamentalmente oggi il rap rappresenta il genere di quelli che prima ascoltavano la musica da discoteca. Sono cambiati i luoghi in cui viene ascoltato e di conseguenza anche certi messaggi sociali e culturali che porta con sé: oggi il genere alternativo è musicalmente quello che passa in Radio e che ti fa fare gli stream su Spotify.
Una strada, da te spesso percorsa è quella dell’ironia – anzi un’autoironia. In questo senso la stand-up comedy con il meritato successo che finalmente riscontra anche in Italia, sta aprendo nuove strade.
Sono d’accordissimo. La stand-up comedy è una forma artistica ed espressiva che mi piace molto come spettatore e a cui per certi versi mi sento molto vicino. Credo anch’io che si tratti di una forma di satira che ha la capacità di intrattenere facendo però anche riflettere, in grado di parlare di tutto e, se ovviamente fatta in una certa maniera, di farlo in maniera molto efficace. Con le dovute proporzioni, anche io ne prendo spesso spunto per la mia musica.
Dire ciò che vuoi sentirti dire, ma non fa per me / Non sono il portavoce di nessuno tranne me.
Willie Peyote. (tratto da “Robespierre”, “Pornostalgia”, 2022)
Ti è mai stata attribuita da altri l’etichetta di portavoce di qualcosa?
Ufficialmente ti direi di no. Essendo però sempre stato un artista di nicchia, che parla di determinate tematiche e legato a certi ambienti vengo percepito così in maniera quasi automatica. La stragrande maggioranza del pubblico mi vede come un artista conscious, intellettuale, di sinistra diciamo. Sia per i contenuti che per la faccia.
Questo rende tutto più difficile perché poi l’immaginario collettivo pretende che ad certo tipo di figura corrisponda una totale aderenza al pensiero di certi ambienti, mentre io ho un mio pensiero del tutto soggettivo, che non è di sicuro immobile e statico. Questo non cambierà la mia adesione a certe posizioni: ho da sempre preso posizione e continuerò a farlo, rimarcando però che si tratta sempre e soltanto della mia posizione, della mia idea, nulla di più.
Se qualcuno si sente rappresentato da quello che scrivo sono contento. Se qualcuno si sente meno solo, se qualcuno condivide le mie idee o le mie paturnie, sono estremamente contento. Ma lo sono perché tutto questo succede per caso: non ho mai scritto qualcosa per sentirmelo dire, non ho mai scritto nemmeno una barra a tavolino pensando all’effetto che avrebbe potuto avere sul pubblico. In Robespierre, e un po’ in tutto il disco in verità, questo tema è centrale: non voglio essere il portavoce di nessuno, quel tipo di responsabilità non mi appartiene. Voglio mantenere gelosamente la libertà di dire esattamente quello che voglio, anche se per alcuni è una stronzata.
Il pubblico però da te non ci si aspetta “canzonette”.
Questo è un ulteriore vincolo. Lo capisco un po’ di più in realtà perché credo che sia figlio di un modo di scrivere che da anni porto avanti. Probabilmente sono stato io a vincolarmi a questo tipo di personaggio. La verità è che si possono fare canzonette pur dicendo qualcosa e viceversa si possono fare canzoni che dicono qualcosa anche se hanno un’appeal più catchy e armonioso. Sicuramente so che la gente da me non si aspetta musica leggera, questo è un dato e ne prendo atto.
però dipende, non è che se ti offende vuol dire che hai sempre ragione.
Willie Peyote. (tratto da “Robespierre”, “Pornostalgia”, 2022)
Vorrei sfruttare questa stupenda barra per dibattere sul complesso tema del politically correct…
Nella frase che scrivo tento di porre l’attenzione dell’ascoltatore su un tema che sento molto, ripreso spesso anche da altri, penso ad esempio al discorso di Ricky Gervais al Golden Globe del 2020. Personalmente non sono affatto contrario al porsi dei limiti quando si parla. Il contesto di riferimento è da tenere bene in considerazione, a maggior ragione quando c’è la possibilità di ledere la dignità delle persone. E oltretutto bisogna anche ammettere e accettare che la sensibilità comune cambi nel tempo ed è giusto che la scrittura sia figlia del momento storico di riferimento: io per primo ho cambiato in alcuni frangenti il mio modo di scrivere rispetto a dieci anni fa.
C’è però da fare una differenza: se scrivi mettendo in discussione certe idee può capitare che qualcuno si senta offeso, io lo capisco, ma non per questo deve sentirsi immediatamente di aver anche ragione. Si dovrebbe imparare un po’ di più a confrontarsi con idee diverse dalle nostre, mettendo un po’ di più in dubbio le nostre certezze. Oggi invece sembra che sia più importante offendersi che andare in profondità all’argomento, provando a capire magari con che fine viene detta una determinata frase.
Se pensiamo ad una comunicazione in cui ci si preoccupa più della forma che del contenuto di una frase, dove si mette l’accento critico solo sulla singola parola piuttosto che sul senso d’insieme della frase e sopratutto sulla circostanza in cui quella parola viene detta, il rischio è proprio quello che la sostanza va via via sempre più perdendosi, e i problemi non si risolvono.
Quanto tentato di racchiudere nella barra è in parte la conseguenza di un’ulteriore circostanza, che è quella delle bolle che ci creiamo suoi social e online: tento di affrontare quest’ultima dinamica anche in Hikikomori ad esempio, riflettendo sul fatto che confrontandosi solo con chi ci da ragione, bloccando gli altri, ascoltando solo chi dice cose che voglio sentirmi dire, ci creiamo un mondo su misura, credendoci di fatto al centro anche del mondo fuori dal telefono. Da qui nasce quel sentirsi toccati sul personale per tutto ciò che viene detto.
Parli da sempre di diritti, lotte e discriminazioni. Per concludere vorrei citarti una frase dall’ultimo disco di Marracash, per me illuminante e estremamente adeguata alla carrellata di tematiche che abbiamo trattato in questa chiacchierata:
Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi, o di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere, non possiamo ancora essere poveri / Perché tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi, no? Oggi che tutti lottiamo cosi tanto per difendere le nostre identità abbiamo perso di vista quella collettiva.
Marracash. (tratto da “Cosplayer”, “Noi, loro, gli altri”, 2021)
Nel mondo reale, fuori da quelle bolle social a cui facevamo riferimento poco fa, la povertà è ancora oggi il vincolo maggiore che ti impedisce l’accesso ad una moltitudine di ambienti e di opportunità. E’ più facile sentirsi liberi quando non si è poveri. Se nasci e cresci in un contesto dove hai tutto a portata di mano sarai indubbiamente portato a crearti nuove opportunità nella vita e a saperle cogliere meglio. In periferia o in provincia, circondato da un ambiente socio-culturale in cui tocchi quotidianamente con mano il fatto che nessuno attorno a te ce la fa, è più difficile convincerti che volere è potere, mentre al contrario sarai più portato ad accontentarti.
Anche questo è un dato che rivendico con forza: in Pornostalgia io stesso parlo molto di soldi, perché credo che siano oggi uno strumento utile e a tratti essenziale per analizzare a fondo la società e le persone che ci circondano. Mi trovo estremamente d’accordo con la barra di Marra, che è per me molto rappresentativa dell’intero suo ultimo disco – che peraltro io considero addirittura migliore di Persona: se ne parla troppo poco dei soldi, o meglio, se ne parla sempre elogiandoli, ostentandoli, ma mai ragionando davvero su quanto la distanza tra ricchi e poveri continua ad aumentare in maniera dilagante e su quanto questo influisca sulla vita di tutti noi.
Il denaro è ancora troppo spesso l’unica discriminante anche in relazione a tutte le altre lotte che vengono intraprese: è un po’ quello che tento di esprimere quando in UFO sostengo che i diritti civili, senza diritti sociali, restano diritti individuali.
Willie Peyote e la sua band porteranno Pornostalgia in tour sui palchi di tutt’Italia, a partire dal prossimo 18 giungo. L’artista torinese sarà inoltre ospite speciale del Wired Next Fest, il maggior evento per partecipazione gratuita in Italia dedicato all’innovazione, che si terrà a Firenze, a Palazzo Vecchio, sabato 28 maggio.