
Dove eravamo rimasti?
A Exuvia, rilasciato il 7 maggio 2021 per Polydor/Universal Music. E pure a Michele Salvemini, in arte Caparezza, che, nella conferenza stampa ufficiale per il lancio del disco, dunque ancor prima che io potessi comprenderlo a pieno, me lo definì come il suo disco più personale. Come un disco che aveva scritto uscendo per l’ennesima volta dalla sua confort zone, accettando di entrare in un limbo imprecisato e abbracciando i dubbi che lo circondano. Dubbi coerenti con il proprio tempo.
Dal 25 giugno, dopo che il tour nei palazzetti è stato convertito in tour estivo, Exuvia sarà finalmente portato suoi palchi di tutt’Italia. Un progetto discografico intimo e impegnativo, che per essere raccontato necessiterà di uno show unico nel suo genere, a cui nessuno probabilmente è totalmente preparato. Tranne Michele ovviamente, che concepisce il concerto live come il vero ed unico strumento per raccontare a pieno la sua arte, e che da mesi, con la sua band, lavora incessantemente alla realizzazione di uno spettacolo che mira ad andare ben oltre al solo aspetto musicale.
Sarà tour irripetibile, in senso letterale: non solo per lo spettacolo scenografico e musicale che attende i fan, ma anche perché si tratterà dell’unica occasione per vedere live Exuvia – e, probabilmente, pure Caparezza, almeno per un bel po’ di tempo.
Il tour estivo di Exuvia chiuderà definitivamente un capitolo della mia vita per passare poi ad una nuova fase, anche a me ancora sconosciuta
Abbiamo raggiunto Michele per farci raccontare tutto quello che gli frulla in testa a meno di un mese dall’inizio del tour. Ma non solo. Senza troppi indugi, abbiamo spaziato tra teatro e scenografie, tra i Pink Floyd e il Carnevale, tra politica e società, tra il senso del fare musica come arte e la consapevolezza del proprio tempo.
Oltre un’ora di chiacchierata di cui andar enormemente fieri.
Il 7 maggio 2022 Exuvia ha festeggiato il suo primo anno di vita: di che disco si tratta dal tuo punto di vista?
Exuvia ad oggi credo che sia uno di quei pochi dischi che riascolterò in futuro. Se non altro perché credo di aver affrontato in una determinata maniera delle tematiche che da qui in avanti potrebbero restarmi incollate addosso, proprio perché sono peculiari di una certa età, la mia.
Sai cerco da sempre di essere onesto con me stesso e di raccontare quello che io vivo, coerentemente anche con la mia crescita. Sono passati oltre vent’anni dal mio primo disco come Caparezza (Ricomincio da Capa, 1999, ndr.): conseguentemente non posso avere la stessa forma mentis dell’epoca, le cose che scrivevo ad oggi si sono inevitabilmente evolute. Credo che Exuvia sia una fotografia audio che mi porterò dietro per diverso tempo nella memoria.
Quale riscontro ha invece ottenuto dal pubblico?
Partirei da un presupposto: chi mi segue si aspetta da me qualunque cosa, mi supporta perché sa che quello che darò alle stampe sarà sempre un disco onesto, che nasce da un bisogno e da una genuina voglia di scrittura. Non farò mai un disco che schiaccia l’occhio a qualche tendenza del momento né tantomeno ad alcuna logica di mercato. Tra l’altro io ho nella mia discografia dei pezzi che sono diventati molto popolari, ma nessuno di questi l’ho mai scritto affinché lo diventasse, è stato quasi sempre un incidente di percorso non voluto.
In Exuvia credo che manchi quell’incidente di percorso: anche i singoli estratti non sono abbastanza singoli per il mercato discografico italiano di oggi. Il ché non è assolutamente un mio problema. Nonostante questo Exuvia ha fatto platino, tra l’altro in un periodo non proprio semplice, dove molte delle tradizionali attività di promozione sono mancate, tra cui instore e interviste in presenza, a cui si unisce un mio personale utilizzo social assai sobrio come ben sai. Ammetto che non vedo l’ora di colmare la distanza che c’è stata tra me e le persone salendo finalmente sul palco.
Mi ricordo che durante la conferenza stampa ufficiale di Exuvia, tenutasi tristemente via Zoom oltre un anno fa, definisti quest’ultimo come il tuo disco più cinematografico di tutti. Cosa dobbiamo dunque attenderci dal tour che avrà inizio il 25 giugno e ti vedrà girare praticamente tutta l’Italia da Nord a Sud?
Per chi non è mai venuto ad un mio concerto, soprattutto per i ragazzi più giovani, si tratta di un vero e proprio show musicale. Il ledwall ce l’ho anch’io sul palco, ma ha una funzione quasi esclusivamente ornamentale. Personalmente tendo ad investire tantissimo su tutto quello che è artigianale: ci sarà l’energia e la dinamicità della band che suona, ma ci saranno anche svariati elemente teatrali, dei performer presi in prestito dal mondo dei musical ad esempio, oltre ad elementi scenografici anche piuttosto ingombranti che interagiranno con me.
Lo show ha l’obiettivo di diventare una sorta di gigantesca stanza dei giochi che si svilupperà parallelamente alla mia musica. E’ veramente un delirio, in primo luogo personale, ma che tenta di piacere anche a chi non apprezza a pieno la mia musica: il gusto è legittimo, soggettivo e dunque anche criticabile, mentre d’altra parte, l’impegno sul palco credo che sia oggettivo non opinabile. Non ho mai preso in considerazione l’andare in giro “perché va fatto”: ci stiamo impegnando da mesi per presentare alla gente uno spettacolo musicale esclusivo e non comparabile.

Hai delle ispirazioni quando prepari uno spettacolo musicale di tale portata?
Ammetto che c’è molta soggettività, mia e di tutto il team che mi segue, nella preparazione dello show. Però sì, ho anche delle ispirazioni. La cartapesta che uso sul palco ad esempio rimanda immediatamente al Carnevale, e quell’atmosfera festosa è un obiettivo a cui ambisco.
Poi ancora oggi io guardo tantissimi dvd dei Cirque Du Soleil, perché amo quelle dinamiche in cui mentre sulla scena principale accade qualcosa sullo sfondo si muove qualcos’altro, andando a creare quasi un quadro con mille suoi dettagli. Tra le altre ispirazioni poi The Wall indubbiamente, che è a mio avviso la punta di diamante del concerto rock teatrale. Fondamentalmente si tratta sempre di palchi in cui accadono cose: nel mio show la musica è fondamentale, ma senza tutto il resto non è completa.
Personalmente ho un ricordo splendido dei tuoi show sul palco. Nel lontanissimo 2014 alle Campanelle a Roma, durante la presentazione di Museica, il tuo allor sesto album ufficiale, ricordo limpidamente l’estrazione a sorte che vi fu, rivolta ai ragazzi delle prime due file: al fortunato regalasti un quadro da te stesso disegnato proprio durante il concerto. Peraltro Museica solo pochi mesi fa è stato certificato doppio disco di platino, a ben 8 anni dalla sua nascita. Questo credo che la dica lunga sul successo che i tuoi dischi da sempre hanno sul lungo periodo.
Museica è stato certificato di platino a Marzo e questo mi rende estremamente orgoglioso. Ci sono dei dischi che rimangono nella memoria collettiva e hanno la capacità di suscitare interesse anche a distanza di tempo. La trovo una cosa tanto positiva, a maggior ragione in un momento storico dove quello che accade non è neanche rapido, ma di più, quasi da skip: è come avere un telecomando e non decidere mai quale canale vedere, limitandosi a scorrere.
E’ una cosa per certi versi anche schizofrenica di cui ho sinceramente paura. Tento per questo di remare in direzione contraria, sacrificando alle volte anche dinamiche comunicative che mi potrebbero portare a certi risultati nell’immediato per poi magari perdersi. Non sono interessato alla certificazione in sé, figuriamoci, però mi rende molto soddisfatto constatare che a volte le scelte che faccio mi danno ragione nel lungo periodo.
A marzo di quest’anno è stato realizzato il video ufficiale di Come Pripyat, uno delle tracce che più di tutte incarna un rito di passaggio: nel caso specifico da realtà ferma a realtà trasformata. Ti senti di vivere ancora in una città fantasma o hai trovato un tuo personale collocamento?
Per quanto riguarda la mia sensazione di spaesamento, per cui ho scelto la città fantasma di Pripyat, c’è ancora. Credo che dipenda dalla mia età: probabilmente io ho sempre vissuto un certo spaesamento, solo che prima riuscivo a fagocitarlo e contrastarlo con il mio modo di stare al mondo, mentre ora lo subisco. Qualche anno fa ero convinto di parlare al mondo, oggi mi sembra di parlare a vuoto, un vuoto che ha trovato nella città fantasma di Pripyat la metafora perfetta.
Crescendo ci si sente sempre meno protagonisti della propria vita rispetto a quando si ha vent’anni, come è giusto che sia. Per me è di fatto sopraggiunta una nuova fase, che porta con sé inedite consapevolezze e differenti riflessioni. Sopravvivo a questo spaesamento attraverso la creazione, distraendomi da quel pensiero fisso, tenendo il cervello continuamente impegnato dalle mie passioni.
Come sono stati scelti i luoghi abbandonati in cui girare il video?
I luoghi fantasma sono stati scelti grazie all’aiuto fondamentale di Ascosi Lasciti, una comunità di appassionati di urbex, quindi di esplorazione urbana. Sono di fatto ragazzi che passano il loro tempo libero a scoprire luoghi abbandonati, città fantasma, rovine, relitti e sotterranei: il loro intento è sì, quello di meravigliare il pubblico e far prendere coscienza dell’immenso patrimonio immobiliare sommerso, ma anche quello di raccontare aneddoti, di informare e, talvolta, denunciare.
Luoghi un tempo abitati ed ora invece vuoti e deserti, che in verità sono pieni di ricordi, di testimonianze, di natura che prende il sopravvento sulla realtà. Esattamente quello che accade nella canzone che verte proprio sulle sensazioni di mutazione e spaesamento. Con i ragazzi di Ascosi Lasciti, io e il mio regista Fabrizio Conte siamo stati in giro per tre giorni spostandoci tra le Marche, la Toscana e l’Umbria facendo le cose più assurde solo per portarci a casa il video. E’ stata un’esperienza unica e bellissima che non dimenticherò.

Una delle tue ultime apparizioni su dischi altrui è datata fine 2021, all’interno dell’armata di Dead Poets III, capitanata da DJ Fastcut. Sulla traccia Smackdown duetti con Mattak, Funky Nano e Roy Paci: come è nata questa curiosa e inedita collaborazione?
Conosco il progetto di DJ Fastcut e lo seguo con interesse da anni. Nei dischi che propone si avvale di molti rapper che ascolto e amo, tra cui Rancore, il cui ultimo disco lo reputo bellissimo, così come mi ha emozionato molto l’ultimo disco di Murubutu, e anche tantissimi altri miei amici che ritengo essere abilissimi al microfono, come Clementino o Willie Peyote, solo per citarne alcuni.
Al di là di questi artisti che stimo professionalmente, in generale mi piace l’idea di questi album che remano contro la cultura dominante: non importante se sono forse un po’ nostalgici, proprio in questa nostalgia hanno il loro senso più profondo e autentico. Forse hanno senso proprio perché esiste una cultura dominante a cui opporsi.
Sulla traccia Smackdown ero attratto dall’idea di poter duettare con artisti virtuosi della tecnica come Mattak e Poche Spanne. Mi sono divertito molto: in realtà io passo tanto tempo a cercare di dare contenuti e significati alla mia musica, che con Exuvia sono diventati anche ulteriormente più profondi, mentre Smackdown mi ha dato la possibilità di tornare a giocare con le parole.
Hai mai avuto la sensazione di essere troppo “old school” e anagraficamente meno giovane rispetto ad altri tuoi colleghi per comunicare fino in fondo con una generazione al contrario così giovane e in parte anche così diversa dal percorso che hai fatto tu, anche musicalmente?
In realtà non provo un disagio tale. Quando scrivo non lo faccio mai per un pubblico: sono pienamente consapevole che alla mia età non arriverò ai ragazzi molto giovani. Lo so per certo perchè quando io avevo vent anni ascoltavo i ventenni, empatizzavo con i ragazzi che facevano rap in quel periodo e avevano un’età molto simile alla mia: quando ho cominciato ad appassionarmi al rap e ascoltavo i 99 Posse avevano la mia stessa età, ed io ne ero affascinato anche per quello.
Dunque io lo so già che ogni ragazzo sotto i vent’anni, ma anche sotto i trenta, che ascolta la mia musica mi inorgoglisce tantissimo, proprio perché prendo già in considerazione il fatto che la mia musica non possa essere affascinante, né alle volte totalmente comprensibile fino in fondo, per chiunque. Esiste un mio pubblico fuori target e questo mi fa molto piacere.
Ciò non toglie però che io voglio appartenere fortemente alla mia età e, al contrario, non voglio assolutamente fingermi in maniera diversa rispetto a questo dato anagrafico e culturale: non posso permettermi di giungere a compromessi su questo, fingendomi per ciò che non sono, atteggiandomi da ragazzo di vent’anni solo per raggiungere una determinata fetta di pubblico.
Non ho mai preso in considerazione l’idea di infilarmi in un sound che non mi appartiene e che non capisco, così come di sfruttare un linguaggio, ora di moda, così tanto diverso dalla mia formazione musicale e professionale. Non sarei più credibile. Vivo molto tranquillamente quello che la vita mi offre e per questo sono pronto a qualsiasi epilogo.
Hai oltre vent’anni di carriera discografica alle spalle: ti è mai stata affibbiata da altri l’etichetta di portavoce?
Si certo, mi è capitato spesso. Soprattutto in ambito politico-sociale: per anni sono stato etichettato come artista politico quando in realtà con la politica ci ho solo scherzato. Io non sono di quelli che “in politica sono tutti uguali, tanto fanno tutti schifo”: così come nella musica, penso che esistano persone motivate anche in politica. Per tanto tempo io stesso ho prestato i miei concerti alla politica, alle volte ho sostenuto apertamente personaggi appartenenti al mondo della politica.
Alle volte ho messo in difficoltà la politica, pensa ad esempio ad Vieni a ballare in Puglia, che poi è stato sì anestetizzato dalla cultura popolare ma che all’epoca della sua uscita creò un bel polverone. Detto questo, ad un certo punto ho smesso di prestarmi a questo gioco, rendendomi conto della strumentalizzazione che era in atto nei miei confronti: io ero animato da intenzioni reali e genuine, ma in politica troppo spesso è tutta campagna elettorale e di conseguenza si trascende da ogni contenuto proposto.
Vorrei concludere questa chiacchierata con una domanda forse un po’ scomoda: ad un anno da Exuvia, sei riuscito a compiere La Scelta? Hai risolto il tormento che si cela tra il dedicare tutta la propria vita a fare musica, consacrandola all’arte (come Beethoven) e invece l’abbandonare i lustri dello spettacolo nel pieno della propria ascesa per dedicarsi alla vita fuori dai riflettori (come Mark Hollis)?
Non lo so. Vivo costantemente in questa tensione, a metà tra questi due poli: a volte mi sveglio Beethoven, altre invece Mark Hollis, e tutte le volte mi sento assolutamente credibile e coerente nei panni che indosso. Non ho lo spasmodico desiderio del far sempre di più, so quando accontentarmi e ho intenzione di godermi quel che ho, quel che mi sono guadagnato in questi anni; un altro album, se ci sarà, partirà inevitabilmente da qualcosa che vivo e che voglio raccontare.
Artisticamente io mi sento già parecchio soddisfatto di quello che ho fatto in questi anni e dunque fare dischi con un senso diventa sempre più un’esigenza primaria. Sono personalmente innamorato di tanti artisti, che ho visto però spesso stancarsi di fare musica nel corso degli anni, ripetersi, non essere in grado di innovarsi o di trovare soluzioni alternative nelle loro narrazioni. Io vorrei fermarmi un attimo prima. Alle volte ho quasi l’impressione che la preoccupazione rispetto al mio smettere di fare musica sia maggiore per chi mi segue e mi ascolta rispetto alla mia.
Il segreto è che la possibilità di smettere con la musica per me si cela alla fine di ogni album, l’ho pensato tantissime volte, anche seriamente. A me poi personalmente piacciono tantissimi aspetti del mondo “dietro le quinte”, addirittura mi piacerebbe molto scrivere musica per altri, mentre al contrario non mi interessa per nulla la competizione, anzi proprio non mi appartiene. Detto questo farò una scelta con grandissima consapevolezza, qualunque essa sia, e credo che sarà anche accettata, qualunque essa sia. Chiudo il discorso autocitandomi, farò una scelta che “mi fa stare bene”.