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Intervista

Deda: “Volevo che House Party fosse il proseguimento di un percorso e non un ritorno al passato”

House Party

Un tempo i Sangue Misto, poi Katzuma e OKE’, oggi semplicemente Deda. “Ormai anche mia madre mi chiama Deda”, mi confessa, scherzando, Andrea Visani, originario di Ravenna, che di anni è prossimo compierne 52. Si è riappropriato per l’occasione del suo primo nome, quello storico, ed è tornato sulla contaminatissima scena rap odierna con un nuovo progetto, House Party, pubblicato venerdì 4 novembre per Virgin Records/Universal Music Italia.

Il primo singolo estratto del disco, a fine settembre, è stato Universo, che ha visto la collaborazione con Neffa, – Deda me lo definisce “la prima persona che ho pensato di coinvolgere nel progetto House Party” – e Fabri Fibra. Il brano è accompagnato da un iconico video girato nella Bologna in cui Andrea abita tutt’ora e tratta del rapporto personale che abbiamo con le passioni e delle soluzioni che ognuno di noi adotta per tenerle vive.

Il confronto in questione è con un artista a trecentosessanta gradi, capace di segnare un’epoca musicale, quella leggendaria prima stagione del rap italiano, di inspirare milioni di ragazzini – ascoltare per credere le parole rivoltegli da Fibra durante il suo ultimo live milanese poche settimane fa – e di mantenere anche oggi uno spessore notevole. Il fatto che, nel corso degli anni, non sia sempre lì ancorato alle classifiche, alle release, ai dischi, ai party, agli stream non deve farcelo dimenticare. 

Forse per tutto questo, ma non solo, parlare dal vivo con Deda, qui negli uffici di Universal, mi ha fatto un certo effetto. Nel fare interviste Andrea non si trova certamente nella dimensione da lui prediletta, eppure parla quasi a ruota e io lo interrompo pochissimo. I suoi racconti sanno di autentico. Narrano di una passione totale per la musica e della fame di rinnovarsi, due predisposizioni ribadite anche in questa chiacchierata.

House Party, l’ultima fatica discografica dell’ex membro dei Sangue Misto ritrae non a caso tutto questo. 10 tracce, 17 ospiti e 0 sample. Un disco adulto, realizzato ad immagine e somiglianza del suo ideatore: classico ma allo stesso tempo contemporaneo, senza compromessi, pensato per chi ama il rap ma è disposto ad accettarne le infinte sfaccettature e contaminazioni.

Lontano anni luce dalla ribalta fighetta e un po’ menefreghista del rap di oggi, degli streaming, dei dischi d’oro o di platino, House party dimostra che se l’orecchio destro di Deda è rivolto al passato è solo perché quello sinistro volge convinto al futuro dell’hip hop.

Parto da lontano, molto lontano: qual è stato il tuo primo approccio alla musica?

DEDA (D): Può sembrare un luogo comune ma mia madre ricorda sempre i pomeriggi che passavo al giradischi a 3-4 anni. Graffiare i vinili dei miei genitori era il mio passatempo preferito. Io non porto personalmente il ricordo di quei momenti, ma so per certo che, da quando ne ho memoria, la musica è sempre stata molto presente nella mia vita. Quest’aspetto è meno scontato di quanto si possa immaginare, considerando poi che i miei genitori non erano esattamente degli “appassionati”: ascoltavano qualcosa si, qualche classico italiano, ma come il 90% dei genitori negli anni ’70, nulla di più.

Iniziai a comprare vinili prestissimo, con i soldi che ricevevo durante le festività dai parenti. Così già a 10-11 anni mi ero costruito un background musicale molto ampio anche in termini di generi. C’era un po’ di tutto tra quegli ascolti. Poi è arrivato il mio primo grande amore: il punk e l’hardcore.

Come mai il punk?

D: Vivevo ancora in provincia, a Ravenna, ma nonostante questo mi sentivo pienamente parte della scena punk dell’epoca. Era avvincente. Si trattava di una scena molto unita, che remava in una direzione comune, proponendosi di spezzare quel meccanismo per cui c’era la star sul palco e poi il pubblico.

Di che anni stiamo parlando?

D: Circa la metà degli anni ’80, a grandi linee fino al mio trasferimento a Bologna, nei primissimi ’90.

Cosa è cambiato poi quando ti sei trasferito a Bologna?

D: Abitavo in un centro sociale, l’Isola nel Kantiere. I centri sociali all’epoca erano gli unici spot dove potevi venire in contatto con l’hip hop. Lì iniziarono ad arrivare sempre più spesso delle cassette. Le portavano i gruppi punk che dall’America venivano a suonare in Italia: nonostante il genere che praticavano, con sé nel furgone avevano magari la cassetta di Eric B e Rakim.

Sono stati questi i miei primi approcci al mondo dell’hip hop. Miei ma anche degli amici che frequentavo in quel periodo, che erano già Neffa, Gopher, Dee Mo e tutti gli altri pionieri con cui poi, qualche anno dopo, ho intrapreso una nuova avventura.

Ci siamo innamorati dell’hip hop perché in quel periodo il genere portava con sé un’attitudine un po’ punk, un po’ self made, in parte anche “politica”. Se ci pensi i riferimenti mondiali che in quegli anni chi si ascoltava hip hop o tentava di farlo aveva erano i Public Enemy. Un riferimento che ai nostri occhi risultava molto vicino.

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Abbiamo avuto la fortuna di vivere in tempo reale quella che è considerata a ragione da tutti la stagione d’oro dell’hip hop americano, che durò per l’intero corso degli anni ’90. Si susseguivano uscite formidabili ogni mese, dischi che ancora oggi rientrano a pieno titolo nei “gotha” del genere. Furono anni indimenticabili.

House Party
House Party (cover)

Deda dalla musica non si è mai allontanato

Tutti sanno cosa è poi successo in quegli ultimi anni ’90. Si dice che il tempo è galantuomo e questo potrebbe rappresentare un caso da manuale: perché con il passare del tempo, SxM  e più in generale l’esperienza dei Sangue Misto, invece di finire nel dimenticatoio, hanno assunto connotati mitici e un seguito quasi messianici. Su quel periodo è già stato raccontato tutto, a volte se ne è parlato anche più del dovuto.

Compiamo dunque un salto temporale che ci proietta nel pieno degli anni 2000 quando è tornato, appunto, sotto il nominativo di Katzuma. Tre album, vari singoli e remix pubblicati anche per etichette straniere. Senza mai smettere di affiancare all’attività di pruducer quella di DJ, facendo ballare una marea di gente per tutta la penisola italiana.

D: Il mio percorso da fruitore e appassionato è continuato autonomamente. Quando ho smesso di fare rap e di produrre hip hop era circa il 2000. Iniziai ad ascoltare tantissima musica black. Tutti quei vinili funk, soul o jazz che avevo accumulato negli anni precedenti inizialmente erano solo parte della ricerca di sample per produrre, ma mi resi presto conto di come ogni traccia aveva la capacità di farmi scoprire a sua volta altri generi, portandomi ad apprezzare sempre di più i musicisti degli anni ’60 e ’70.

La ricerca ha avuto un impatto folgorante sui miei gusti musicali: ascoltavo quella musica pazzesca con molta più attenzione. Da lì ho iniziato a conoscere la disco, e poi l’house, e poi la tecno, e poi la musica africana. Ancora oggi ammetto di non essere mai sazio quando si tratta di scoprire nuova musica.

È vero: fuori dall’Italia ho avuto parecchie soddisfazioni. Pensa che per lunghi archi temporali la mia musica ha funzionato più all’estero che qui da noi. Ho pubblicato in Canada, in Giappone e in Inghilterra. Per forza di cose in Italia il mio background influenza le persone, qualcuno mi associa al nome di Katzuma, i più a quello dei Sangue Misto. Questa dinamica in parte falsa la percezione sui miei progetti.

All’estero invece nessuno mi conosceva, e dunque la mia musica piaceva di per sé, senza nessuna altra motivazione. Nonostante certi traguardi siano stati poco celebrati in Italia – legittimo, capisco che possano rappresentare soddisfazioni solo per addetti ai lavori -, grazie ai miei progetti strumentali ho avuto modo di collaborare con nomi incredibili della storia disco e funk, da Al Kent a John Morales.

E poi si, all’attività di producer univo sempre quella da DJ. Ho suonato per anni quasi ogni weekend e ancora oggi quella rimane la mia attività primaria.

Il tuo allontanamento dal mondo del rap per molti anni è stato significativo. Dicesti che non eri più stimolato dall’ambiente – pensiero assai condivisibile. Consapevole di quante volte ti possa essere stata posta questa domanda ti chiedo: a cosa si deve il tuo recente ravvicinamento?

D: Puntualizzo: più che l’ambiente devo dire che era la forma musicale del genere che, in maniera molto spontanea, iniziava a starmi stretta. Non c’è stato nulla di drastico a riguardo. Sentivo di non volermi limitare ad un unico genere, mi è sempre piaciuto spaziare musicalmente e da sempre tento di seguire il mio istinto e assecondare la mia curiosità.

Prima accennavo al mio percorso da ascoltatore e contemporaneamente produttore che, a partire dai primi duemila e fino a qualche anno fa, mi portò ad esplorare la musica soul, funk e disco. Ho suonato in gruppi diversi, sotto nominativi diversi, dietro alle macchine o alla tastiera, collaborando con tantissimi musicisti dal talento mostruoso.

C’è stato poi un momento, pochi anni fa, in cui iniziai a rendermi conto che le cose che stavo producendo si trovavano in un territorio verso il quale stava convergendo contemporaneamente anche la scena del rap e del soul in Italia. È capitato per la prima volta collaborando con Frah Quintale: avevo ricominciato a produrre queste tracce che mi sembravano molto adatte sia al rap che al cantato, in particolare per un artista come Frah che è un talento in entrambe le forme. La calma era il titolo del brano: non ha mai avuto circolazione, se non su Youtube, anche perché temporalmente era coinciso con l’inizio del lockdown. Ne eravamo però molto entusiasti, tant’è che poi abbiamo rivisitato il pezzo, ho prodotto una base nuova, Frah ha rimanipolato un po’ le sue parti cantate e l’abbiamo inserito nel disco.

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Ero cambiato io, ma sentivo che pure la scena stava cambiando. Tutti quelle produzioni suonate con gli strumenti nei dischi rap italiani mi incuriosivano parecchio.

House Party: una festa tra amici dove la nostalgia non trova spazio

Un producer album si accompagna, per sua stessa natura, al concetto di complessità. Si tratta di un progetto tanto da artigiano quanto, contemporaneamente, da direttore creativo: non è solo beatmaking ma di qualcosa di ben più articolato, che si dirama dal concept alla scelta dei suoni, fino alla selezione degli ospiti e alle proposte musicali da rivolgere ad ognuno. Per riassumere, quel lavoro di produttore hip hop come da sempre lo si intende oltreoceano. Confinare, all’interno di House Party, il ruolo di Deda all’essere “solo” il producer può risultare inesatto. 

D: Il produttore è ovviamente il ruolo primario che ricopro nel progetto. Se c’è però una cosa di cui vado molto orgoglioso è l’essere riuscito, in parte, a spingere l’ospite a muoversi in territori musicali che non sono propriamente i suoi.

L’ho fatto pur stando molto attento a proporre ad ogni artista un’idea pensata su misura per lui. Però ecco, potrei aver ricoperto il ruolo di colui che tenta di spingere l’ospite fuori dalla propria comfort zone. A mio avviso è una cosa interessante che, per lo meno, porta alla nascita di cose non già sentite.

Non volevo fare un disco solo rap, questo mi era ben chiaro dall’inizio. Niente nostalgia.

Gli ospiti stessi presentano d’altronde tantissima contaminazione: di stili, generi, voci ma soprattutto generazioni. Come è avvenutale questa scelta?

D: La spontaneità è stata pure qui l’attitudine che più mi ha guidato nella scelta. Primi fra tutti i miei amici, persone che conosco da anni e con cui ho condiviso tanto. Penso a Neffa, a Fibra o a Sean. Poi gli artisti con cui vi è un rapporto di stima, che spesso ho scoperto essere reciproco.

Fare un producer album come ho detto anche in precedenza è complicato, il cercar di mettere ogni tassello al posto giusto mi ha alle volte impedito di coinvolgere ulteriori artisti, con cui però spero ci sia occasione di collaborare in futuro.

Non volevo fare un disco solo rap, questo mi era ben chiaro dall’inizio. Niente nostalgia. Quindi ho cercato a tutti i costi di avere anche ospiti leggermente più lontani da questo ambiente, vedi ad esempio Al Castellana, Shorty, i Coma_Cose, o lo stesso Neffa oramai.

Hai sempre avuto un controllo quasi maniacale sui tuoi lavori discografici. Dall’ideazione, al master, sino alla distribuzione. Come vivi ora l’essere dentro ad un’etichetta? Intendo in più largo spettro il far parte di una squadra, di un gruppo di persone che credano nel tuo progetto (e in parte se ne prendano anche la responsabilità).

D: L’esperienza in Universal mi ha visto circondato sin dal primo giorno di persone che mi conoscevano da anni. Questo mi ha permesso comunque di avere un controllo totale su ogni aspetto del disco, in maniera non tanto diversa rispetto al mio passato. Si è aggiunta ora la possibilità di fare una promozione seria, capillare e intelligente della mia musica, un aspetto che non è mai stato nella mia indole e che forse, anni fa, non rientrava nemmeno tra le mie priorità.

House Party
Deda. © Foto Ufficio Stampa. PH – Enrico Rassu

L’ascolto di House Party è un’esperienza particolare. Si tratta di un album denso di significati, rimandi, allusioni indirette e sottotesti ingarbugliati. Deda attinge alla sua cultura di riferimento stravolgendola e ibridandola, in un caleidoscopio così zeppo di suggestioni che alla fine risulta difficile capire dove ha preso l’ispirazione per questo o quel beat.

Non vi è stata nemmeno una traccia che non ho scelto di riascoltare più volte tralasciando totalmente le parole, incentrandomi sul solo suono. La percezione maggiore è stata il crearsi di una sinergia unica tra i pezzi, dove quelli che seguono spesso richiamano quelli che li precedono e così via dall’inizio alla fine del disco: esiste un flusso che si crea traccia dopo traccia, magari non te ne accorgi subito al primo ascolto ma piano piano tutto prende il suo posto e si crea la magia. C’è il jazz, c’è il funk, c’è il rap. Ci sono, in sottofondo, alcune suggestioni artistiche tipiche degli anni ’90 che ho profondamente apprezzato. C’è un lavoro quasi maniacale sui dettagli, sulle atmosfere.

Mi racconti un po’ quale è stato il processo creativo che ha portato alla realizzazione del disco?

D: Da artista matto quale mi reputo cerco di non interrogarmi mai troppo su quello che faccio, al fine di non innescare certi meccanismi limitanti che vanno poi a compromettere la naturalezza del risultato finale.

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Per la realizzazione di House Party avevo però tre parametri in testa. Innanzitutto volevo che il progetto mi rappresentasse a pieno e rappresentasse al tempo stesso tutto il percorso che ho fatto, da quando ho iniziato sino ad oggi, dunque un percorso di oltre trent’anni. Volevo poi che il risultato non fosse troppo allineato ai suoi di moda oggi, ma che avesse una sua componente di originalità, che fosse in grado di distinguersi. Infine, rimaneva fondamentale ricordarsi la necessità di produrre basi che fossero stimolanti per la persona a cui la andavo a proporre, avendo ogni ospite una sua unicità.

È chiaro che un disco con tanti ospiti viene per forza mediato dalla presenza altrui e non potrà mai essere un disco solo tuo, come invece poteva essere un progetto di sole produzioni. Questa componente però, in House party, ha contribuito ad arricchire il progetto.

Tu segui personalmente le ultime evoluzioni del rap italiano e, a prescindere dai riferimenti, ti suscitano interesse oppure guardi altrove?

D: Lo ascolto, assolutamente. Da anni seguo la scena rap e soul italiana e anche le tutte quelle divagazioni che oggi rientrano nel più ampio termine “urban”. Ascolto persino le cose nuovissime realizzate da generazioni molto più giovani di me. Non ho mai perso la mia curiosità per quel mondo. Ascolto anche tanto altro certamente. Come spesso succede trovo un sacco di roba figa ed altra no.

Quando hai iniziato a fare musica, se arrivavi dall’underground, il mainstream veniva visto con sospetto. L’avere successo poteva essere anche uno stigma, anzi, in qualche caso lo era proprio. Oggi, chi si approccia a questo mondo, non può fare a meno di notare un’abissale differenza sul tema …

D: Da una lato è una figata che un’artista che ha qualcosa da dire possa raggiungere un pubblico di persone molto ampio. In realtà pure negli anni ’90 noi speravamo in questo. Sul tema c’è forse un equivoco: lo stigma che c’era nei confronti del mainstream non era verso il mainstream in sé, chiunque fa dischi spera di vendere tante copie. Il problema era che in quel periodo, quasi sempre, per vendere tanti dischi eri costretto a fare musica di merda.

Adesso non è più così, ed è una figata. Lo dice anche Frah in una strofa del disco.

Se hai talento puoi prenderti il mondo dalla cameretta

Frah Quintale (tratto da “La Calma pt.2”, “House Party”, 2022)

Sulla questione credo però esista un rischio: quello che tutti i ragazzini che provano a fare musica si convincano dell’esistenza di un’unica strada, appunto quella della visibilità e del successo immediato. Al contrario la musica dovrebbe servirti essenzialmente per esprimere quel che hai da dire. Il successo non potrà mai essere l’unico scopo. Il fare musica dovrebbe rimanere lo scopo in sé.

House Party
Deda. © Foto Ufficio Stampa. PH – Enrico Rassu

So che hai sempre fatto le cose a modo tuo e senza troppi calcoli, lo hai ribadito più volte anche in questa chiacchierata. La domanda quindi può risultare un po’ banale, ma vorrei chiudere chiedendoti se, nella stesura di questo disco, hai mai risentito della “paura” dei numeri, che la logica degli streaming prevalesse sulla musica in sé.

D: Se devo essere onesto, sì. Sono pienamente cosciente che nel 2022 la musica si misura anche in quel modo, che l’esperienza di ascolto è più immediata e soprattutto che il numeretto degli ascolti scritto affianco alla canzone su Spotify è significativo e fa una certa differenza. Allo stesso tempo però posso affermare che già da quando il progetto House Party era solo un’idea abbozzata, assieme ai ragazzi che mi hanno seguito dall’inizio abbiamo avuto sempre ben chiaro che l’unico l’obiettivo fosse produrre musica che ci piaceva, andando eventualmente anche a discapito degli streaming.

Per l’occasione ho goduto poi del lusso di potermi considerare un esordiente, visto che è la prima volta che realizzo un disco sotto una major, in un mondo, quello della discografia musicale odierna, differentissimo rispetto al passato. Non ho neanche uno storico personale con cui confrontarmi, dunque qualsiasi risultato io ottenga, anche in termini numerici, nessuno potrà metterlo a confronto con altro.

Il mercato discografico e le sue dinamiche sono per forza rilevanti, sarei ottuso a negarlo: sull’argomento c’è però da ricordarsi che ad oggi ho un’età e un’esperienza alle spalle che mi permettono di vivere questo aspetto in maniera molto serena. I numeri, pure se fanno piacere, non scalfiranno mai il giudizio che do alla musica. Se avessi voluto fare un disco per gli ascolti, avrei fatto una roba totalmente diversa.

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Studente, accanito lettore, alla continua ricerca di creatività. Dalla mentalità diversa da chi tergiversa.
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