Mesi fa, in questi tempi inquieti, ho ricevuto in anteprima un libro la cui pubblicazione spero vi allieti. Vi starete chiedendo quale volume meriti un’introduzione in rima? Niente meno che Revolution! La vera storia dei Public Enemy, scritto dal giornalista, scrittore, storico Hip Hop, appassionato di cultura afroamericana e di subculture urbane Andrea Di Quarto, edito da Tsunami Edizioni, numero 56 nella collana Gli uragani.
Non è la prima volta che leggo qualcosa di Andrea Di Quarto. Nel 2020, in piena pandemia avevo letto, infatti, la biografia di un’altra figura iconica e irrequieta: quella di Tupac in Storia di un ribelle, sempre edita da Tsunami Edizioni.
Alle origini dei Public Enemy: il più grande gruppo Hip Hop politico di sempre
Accurata, arricchita di frammenti d’interviste e rimandi ad altre autobiografie, Revolution! La vera storia dei Public Enemy cerca di cogliere quante più sfumature possibili del loro percorso artistico, nonché umano.
Quest’opera si pò semplicemente definire come un concentrato di rabbia, di gioia, di divertimento, di coraggio e di malinconia. Addentrarmi nelle ricostruzioni storiografiche del “più grande gruppo hip hop di sempre” (p. 11) è stato per me davvero interessante e arricchente. Il giornalista in modo scrupoloso e preciso ripercorre la nascita dei Public Enemy. Dando ampio spazio alla ricostruzione storica, Di Quarto smonta subito il campo dallo stereotipo del rapper poco istruito che esce dal ghetto.
Molti membri dei Public Enemy, nati sul finire degli anni Ottanta, infatti, avevano ricevuto “un’istruzione di livello universitario” (p.17). Una via, quella universitaria privilegiata, che aveva consentito loro l’ “accesso a un certo tipo di conoscenza di base da cui attingere”, per creare testi, musiche e estetica visiva d’impatto. Con i Public Enemy l’intrattenimento diventa “arma artistica”, spiega l’autore.
Tutto dalle rime all’estetica nei Public Enemy era infatti radicale, ribelle e militante. Il loro stesso nome nasceva dalla consapevolezza che i giovani maschi afro-americani erano -sono- il nemico pubblico numero uno per la società americana. Pensiamo al sistema carcerario americano e agli elevati tassi d’ incarcerazione di persone non bianche, o agli innumerevoli episodi a sfondo razziale, come quello ormai divenuto tristemente noto a livello mondiale George Floyd.
Forte era, quindi, il senso di apparenza comunitario e identitario. Esempi in tal senso sono gli album It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back (1988), Fear of a Black Planet (1990). In questi ormai dischi classici rap, la vita quotidiana delle persone afroamericane veniva raccontata in modo realistico. È tra le rime del Public Enemy che è nato il così detto reality rap: delizia, ma anche croce del rap e della sua evoluzione, la trap.
L’influenza sui Public Enemy del radicalismo nero e di molto altro
Un posto di rilievo nel libro di Andrea Di Quarto spetta alle radici sociali, culturali e politiche a cui i Public Enemy si sono ispirati nei loro oltre 30 anni di iconica carriera. Nel capitolo sette il giornalista tratteggia in modo puntuale il contesto quotidiano in cui le persone afro-americane e non bianche vivevano negli anni 80 negli Stati Uniti d’America. Nonostante le conquiste e molte dichiarazioni esistevano solo sulla carta e quindi “la questione razziale rimaneva aperta” (p. 95): una ferita davvero dolorosa. Come spiega l’autore (p.95), anche se nei media si iniziavano ad intravedere corpi non bianchi:
“la maggior parte dei neri e degli ispanici viveva pressoché ai margini. Disoccupazione, criminalità, soprusi da parte delle forze dell’ordine, violenza domestica, ascesa del consumo e del traffico di droga e AIDS stavano flagellando la popolazione nera” .
È in un contesto di questo tipo che cresce la necessità di riacquisire dignità sia sul piano socio-economico sia su quello socio-culturale e personale, mettendo al centro la cultura Nera. Si sviluppa così un forte e plurale afrocentrismo: articolato in un generale movimento culturale-politico nero, ma anche veri e propri audaci i movimenti rivoluzionari, come il sionismo nero e movimenti politico-religiosi, come la Nation of Islam. Un microcosmo culturale ricco di idee e di spunti rivendicativi. Le rime de Public Enemy erano infatti in mix potentissimo di marxismo, di socialismo africano e cultura Black davvero magnetica, non solo per le persone nere, ma anche per i giovani bianchi.
I lati oscuri dei Public Enemy
Il ritratto che Andrea di Quarto ci offre dei Public Enemy, in 336 pagine, è davvero completo, onesto e pesato. Il taglio giornalistico rende il tutto molto piacevole. Anche quando sono affrontati temi importanti, il libro scorre ed è arricchito anche da tante foto d’epoca: in bianco nero, davvero evocative e d’impatto visivo.
Il libro si dilata ulteriormente con un’ampia bibliografia finale per chi volesse diventare nerd, o ricorrere il quinto elemento della cultura Hip Hop: ossia la conoscenza critica. Immancabile, infine, la sezione discografica: davvero un percorso artistico monumentale! Interessante, ritornando ai venticinque capitoli, è inoltre il capitolo diciannove dedicato alla Net Revolution.
Anche se traspare un forte amore per la cultura Afroamericana, l’autore non fa sconti, né tanto meno cerca di ridimensionare gli aspetti problematici. Anzi, mette in luce anche gli aspetti più controversi e torbidi di questo iconico gruppo. Come ad esempio le numerose rime sessiste, le idee fortemente tradizionaliste, rigide e insomma patriarcali nei rapporti tra donne nere e uomini afroamericani emerse in molte interviste; così come le accuse di violenza domestica di Flavor Flav. Oppure l’omofobia nemmeno così troppo celata di Chuck e poi le note accuse di antisemitismo del “Ministro dell’Informazione” il Professor Griff…
Mentre leggevo queste pagine, oltre ad apprezzare l’onestà e la voglia di cambiare. Mi tornavano in mente le parole della docente e critica femminista nera intersezionale bell hooks quando nella sua opera Insegnare il pensiero critico, nel capitolo Imparare al di là dell’odio scrive: “Quando i nostri scrittori e intellettuali perferiti, quelli che amiamo e da cui impariamo tanto, restano legati , al pensiero dominante, la delusione è grande ”(p. 139).
Leggere dei Public Enemy nel 2023
Eppure anche da opere artistiche, come le canzoni rap, che perpetuano -senza metterli in discussione- noti stereotipi omobilesbotransfobici, sessisti, o inferiorizzanti di qualche gruppo umano, si può imparare. Ci possono essere aspetti positivi, anche se limitati, o secondari anche in queste narrazioni. Forse, allora, non solo perpetuano stereotipi: ci mettono di fronte alla nostra realtà. Inoltre una canzone può raccontare di una situazione bellissima, ma nel farlo può usare un linguaggio sessista, oppure razzista, tuttavia può avere una musicalità e un ritmo meravigliosi: tanto da farci prendere bene. So che vi vengono tanti esempi in testa.
In riferimento ai Public Enemy ad esempio si può dire che nelle loro canzoni avevano sviluppato una profonda consapevolezza di che cosa volesse essere persone nere in una società in cui il suprematismo bianco non era sconfitto. Così come avevano un forte pragmatismo nel descrivere le relazioni affettive con persone bianche, le quali creavano animosità ed elevate aspettative sociali nelle comunità nere.
Tuttavia erano cresciuti in una società fomente misogina, sessista, omofoba e antisemita. Questo influenzava il loro modo di essere artisti militanti: deludendo, ferendo molte persone e quindi perdendo un pò di credibilità e facendo arrabbiare tante persone. Questo rapporto circolare tra musica e società, è una questione complicata.
Come dicono gli stessi Public Enemy, nella canzone Resurrection del 1998 una vera:
“Battle for your mind, like Israel and Palestine/Good news in some fuckin’ hard ass times”.
Tanti aspetti problematici, tuttavia non mettono in dubbio per niente la loro grandezza, importanza e il loro carattere rivoluzionarismo al livello musicale, artistico e culturale. Tant’è che nel 2013 sono stati inclusi nella Rock & Roll Hall of Fame perché il loro spirito ribelle e anti-sistema ha influenzato generi musicali diversi, così come tanti campi culturali. Il loro insegnamento è planetario. Tuttavia, come ha detto lo stesso Chuck D nel 2022 «la rivoluzione non si può vendere». e molto spesso capita che «Truth don’t sell a lotta records or books».
Parecchie cose si possono dire di questo gruppo di Long Island, ma non che non si sia saputo evolvere da tanti punti di vista, pur conservando la forza e la capacità di lettura delle dinamiche sia della società americana, sia dell’industria musicale. Questo e molto altro Di Quarto lo racconta molto bene tra le righe di questo libro: che vi consiglio! Anche se occhio troverete diverse volte la n-word, e l’espressione “di c*l*re”, che non sono state di mio gradimento.
Magari la rivoluzione, non si può vendere, ma donare alle persone che amiamo: sì. Questo libro è sicuro un’efficace idea regalo e un importante tassello editoriale per i collezionisti.