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Intervista

Willie Peyote ci ha raccontato la sua Sindrome di Tôret

Willie Peyote e Eleonora Cannizzaro al serraglio

È venerdì 17 novembre e due terzi delle quote rosa della redazione hanno un appuntamento molto importante: il live di Willie Peyote ai Magazzini Generali di Milano. L’esibizione esplosiva vi verrà raccontata dagli espressivissimi scatti di Lara e nel frattempo faremo un viaggio dentro la Sindrome di Tôret, a tu per tu con Guglielmo. Buona lettura!

Torni a Milano dopo (credo) l’ultima data milanese datata luglio al Carroponte che saltò. Nel giro di un pomeriggio fu organizzata la Cantata Anarchica all’Arci Bellezza, live acustico con Dutch Nazari, Sick & Simpliciter, Alessandro Burbank, Era Serenase. Le persone erano disposte a sentirvi live anche in un parcheggio, sotto la pioggia. Ti aspettavi questo feedback da Milano? Com’è andata invece la data di oggi ai Magazzini Generali?

Quella dell’Arci Bellezza è stata una cosa strana e bella, e credo non ci saranno altre cose belle uguali. Io e il chitarrista non avevamo mai provato in acustico prima di quella sera. C’era una bella atmosfera e non mi aspettavo questo calore da Milano. L’empatia era altissima. Stasera invece è stato molto molto figo ma è stata una cosa diversa. È stato un vero e proprio concerto ed ero molto più concentrato. Ultimamente è stato bello ed inaspettato dappertutto, davvero. Quando è uscito il disco mi aspettavo che un sacco di gente mi dicesse “non sei più quello di Educazione Sabauda” e un mare di gente me l’ha pure detto tra l’altro. Ma questo disco è meglio di Educazione Sabauda, senza dubbio. Parliamo appunto di questo disco. Sia il titolo (Sindrome di Tôret) che il nome del tour hanno un chiaro riferimento a Torino, la tua città. Questo è un disco che però forse parla sempre meno di Torino e si apre ad un discorso più “nazionale”. La presenza di Torino è più nascosta e misteriosa, come tutto quello che c’è intorno al discorso Sindone, mi sbaglio?

Secondo me vorresti dire nazionalpopolare e mi stai accusando di essere generalista (ride). In realtà ci sono due grossi riferimenti a Torino. Il primo è Portapalazzo ed è il riferimento che si coglie. Quello che non si coglie invece è proprio un ringraziamento a Torino con questo chiaro riferimento ad essa nel titolo. Non mi aspettavo di ricevere tutto questo calore, anche a casa, anche da musicisti che ho conosciuto da piccolo con mio padre. Quando in “Metti che domani” dico “ho parlato di lei con educazione, lei porta in alto il mio nome” intendo “ho parlato di lei con Educazione Sabauda e lei in realtà mi sta portando su un palmo di mano”. Le devo un sacco. Parlo di Torino in un altro modo. Non parlo di Torino ma proprio perché non parlo di me. Già nel vinile di Educazione Sabauda avevo fatto disegnare un Tôret dal grafico, perché stavo già pensando che potesse essere il titolo del successivo disco, pur non essendone ancora certo. Poi ho fatto in modo che succedesse. Infatti a me viene meglio fare le cose e poi trovare una spiegazione, piuttosto che il contrario. Cioè sono io quello con la Sindrome di Tourette!Rimaniamo sul titolo e ci spostiamo sul riferimento alla Sindrome di Tourette, che hai appena citato. È stato registrato in un mese, ma immagino che abbia avuto una gestazione ben più lunga. Qual è la parte più istintuale e compulsiva dell’ultimo album?

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C’è meno istinto di quanto non si direbbe. È stato il disco più razionale e ragionato. È un disco diverso pure dal punto di vista della scrittura perché alcune barre non erano state scritte per i pezzi in cui li senti. L’ho scomposto e l’ho scritto in un modo strano, per me. Alcuni pezzi sono poi stati scritti direttamente in studio come “Vilipendio” o “Donna bisestile”, anche se avevano già la loro collocazione nel disco.

Non è un disco di istinto ma parla di istinto. Per esempio, si parla spesso nei pezzi dei rapporti sessuali senza protezione. Come col fascismo, hanno smesso di farci paura raccontandoci com’era andata ed oggi la gente torna a farsi di eroina, scopare a caso senza preservativo e a diventare fascista.In Portapalazzo non c’è un discorso diretto alla politica, quanto più alla cultura di massa nei suoi confronti. Alla politica nessuno ci crede più, perché ha perso credibilità incentrandosi su slogan prettamente autoreferenziali. La classe politica è vecchia, ma quando si propongono i giovani (gli “ex compagni universitari”) rimaniamo sempre un po’ perplessi. “Ma io non so neanche se voterò”. La società italiana ha fallito ufficialmente nei confronti della res publica secondo te?

Sì. Sì, abbiamo fallito da Craxi in giù quando ci siamo fatti convincere di essere tutti uguali. Berlusconi dopo Craxi ha vinto convincendoci che tu al suo posto avresti fatto la stessa cosa. Non è tanto il discorso che “i politici rubano tutti” quanto il fatto che tu pensi che tanto ruberesti anche tu al posto loro. Hanno vinto convincendoci che eravamo tutti uguali e tutti stronzi uguali.

Abbiamo fallito perché non siamo interessati. È triste, ma se il M5S è la massima dimostrazione di quello che può essere il movimento dal basso, abbiamo fallito miseramente. Quel mio compagno di scuola che rubava gli scooter e oggi viene da me a dirmi “eh se non voti noi chi voti?” è la dimostrazione che non puoi insegnare tu, che fino a ieri il massimo del senso civico che avevi era fermarti al rosso, come si sta al mondo a me che ho passato la vita ad appassionarmi e a studiare scienze politiche.

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Il punto è che non è necessario candidarsi per cambiare le cose. Il senso del disco, per quanto sia io polemico, è che stiamo litigando tutti troppo. L’impegno politico lo puoi dimostrare senza candidarti, cioè… cambiamole le regole! Torniamo indietro di un anno. Parliamo di “A sud di nessun nord”, documentario su Lampedusa prodotto in collaborazione di Stefano Carena e Francesco Costanzo. Un testimone privilegiato (Giacomo Sferlazzo) dice: “l’immigrato va bene se resta dentro al centro, non parla, subisce il nostro amore”. Oppure Giandamiano Lombardo afferma: “pensare Lampedusa come un’isola dell’integrazione è un falso”. Torino è città simbolo per quanto riguarda la multiculturalità in Italia. Cosa significa davvero “integrazione” per te?

Il titolo è una citazione di Bukowski. I racconti delle persone che abbiamo conosciuto a Lampedusa ci hanno aperto subito la testa sull’idea che noi non avevamo ancora di Lampedusa, e cioè che è sempre stato un buco di culo al centro di passaggi di chiunque. La frase che dice che l’immigrato riceve passivamente il nostro amore, che deve stare muto e dire ciò che vogliamo noi, ci fa capire quanto lì il razzismo sia più sottile. Per quanto una persona sia aperta mentalmente siamo un popolo razzista. Siamo pure razzisti tra di noi!

L’integrazione poi è faticosa, persino a Torino. È successo dieci giorni fa che un uomo ha insultato una ragazzina di colore (tra l’altro italiana) che saliva sul pullman dicendole: “che cazzo vai a scuola che tanto finirai sui marciapiedi a fare la puttana?”. Ed è successo nella città che secondo me in Italia rappresenta il meglio dell’integrazione. L’integrazione si crea nello stesso pianerottolo. All’inizio ti darà fastidio sentire l’odore di curry invece che dell’aglio, ma dopo un po’ si diventa amici anche se all’inizio le differenze si sentono. Perché non parliamo del fatto che le differenze esistono e dovremmo tutti iniziare ad apprezzarle invece di dire che siamo tutti quanti uguali? Non siamo tutti uguali, è l’errore più grande che si è fatto. Rendiamo fighe le differenze e vedi che l’integrazione diventa più facile. La black music italiana è nera come Carlo Conti?

Sì (ride -ndr). So dove vuoi andare a parare. Sai chi è stato l’unico nero in italia che ha fatto l’unica musica black in questo paese? Pino Daniele. Lui ha fatto l’unica cosa veramente black. Il resto non è black. È bella? È brutta? Non lo so. La black music italiana oggi è nera come Carlo Conti. Potremmo fare di più.A differenza di Educazione Sabauda o Non è il mio genere il genere umano hai un modo meno “sfacciato” e provocatorio nei confronti della figura della donna. Ti sono state mosse anche diverse critiche a cui hai risposto con i versi de I Cani: E senza offesa ma vestirsi male e avere un pessimo rapporto col cazzo mia cara non c’entra niente col femminismo”. Il rischio di lasciare certi argomenti troppo in balia delle interpretazioni può essere alto. Pensi essere frainteso possa essere in qualche modo pericoloso?

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Per quanto riguarda la frase de I cani non puoi fraintenderla, in quel caso la prendi di punta. Io con quella frase ho preso posizione, ma non è fraintendibile. Puoi incazzarti ed è legittimo. Dopo di che ho smesso di pormi il problema che la gente possa fraintendermi perché una volta che il pezzo è pubblico, tu, ascoltatore, puoi farci quello che vuoi. Se io avessi davvero la pretesa che debba arrivare necessariamente un determinato messaggio dovrei assolutamente essere bravo io a veicolarlo, perché la comunicazione funziona così. In quel caso non sarei stato io a spiegarlo bene.

Le cose che dovevano essere capite sono state capite addirittura meglio di quel che mi aspettassi per questo disco. Per esempio, il viaggio politico su Portapalazzo oppure la questione legata al concept album. Questo è stato il disco più difficile da comprendere e per certi versi è il mio secondo disco. Il messaggio è sempre lo stesso di tutti i dischi ma cambia forma. Più che altro questa evoluzione deriva dal fatto di aver capito che dopo una comunicazione violenta può esserci una risposta violenta (e mi è successo ai live dei tempi di Non è il mio genere il genere umano), che poi degenera. Quindi da lì in poi ho iniziato a togliere un po’ perché posso dire la stessa cosa senza per forza farti incazzare nel modo sbagliato. Se devo togliere un cazzo e un vaffanculo toglierò un cazzo e un vaffanculo. Pronostico: quando ti vedremo a Sanremo (ride -ndr)?

Non ho mai fatto mistero di questa cosa, se mi ci vedo o no non lo so finché non ci sono! Non avete idea di cosa significhi suonare di fronte tutta Italia, di fronte a venti milioni di persone e tu devi fare bene il pezzo con un’orchestra di 120 elementi e non devi sbagliare un cazzo perché se sbagli ti vedono tutti. Sei bravo quando quella cosa la fai alla perfezione e puoi dire “ok, non mi piace più”, ma finché non la fai neanche non sei più bravo di quelli che invece la fanno.

Raige, anche se magari fa musica che io non capisco adesso, ma lo considero come un fratello, è stato bravissimo! Non ha sbagliato niente.

Per me come performer è una sfida!

 

Per tutte le foto della serata visita il link https://www.facebook.com/pg/CasaDelRap/photos/?tab=album&album_id=10156033108750625 

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Assistente Social(e) del rap italiano e della vita in generale a.k.a. Redattrice con OCD
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